Free Words

Mala-nconia

Tutta la mia testa altrove, in un’astronave
Fatta di ciottoli e buio notturno, si muove a sospiri di pieni polmoni
Nell’immenso spazio vuoto, mi diranno “devi essere felice
Hai ancora da esplorare”, esplorare, esplorare, piccoli pianeti
Coi pensieri che ci orbitano pesanti, sciami di conti in sospeso,
Essere attratto da gravità resistibili,
Viviamoci il presente con la brutale bellezza della solitudine,
Viviamoci viviamoci, a distanze di anni luce,
“Devi essere produttivo,
Devi avere un tuo motivo”,
Proprio ora che sono vestito da una maglia di dolore.
Dolore,
Malinconia, ci soffoca dolcemente
Nei letti da cui non osiamo alzarci
Nelle coperte che abbracciano il nulla dei nostri corpi
Stesi o rannichiati, rigidi e freddi, con la gola annodata
Da un impegno di cui dobbiamo ricordarci.
E tu non ti rendi conto che è questo, Amico Mio?
E’ proprio questo che ha ucciso le mie Voglie,
In una primavera che sa d’autunno, “Del nostro scontento”!,
Le scale che per quanto salgano, portano sempre in basso.
Per quanto la verità sbucci, la bugia è sempre frattura.
Per quanto il dolore uccida, la rabbia che partorisce è sempre Vita.

Siamo solo dei bambini che hanno imparato a camminare dopo i loro giocattoli.


Un Punto per Me Stesso

Al caro e amato Me Stesso;
dovremmo un po’ fermarci
con tutto questo tormentarsi, non ti pare?
Le persone, queste piccole e minuscole cose
devi un po’ lasciartele scivolare addosso,
e scivolare tu stesso nell’acqua piovana
delle pioggette primaverili,
Ripristinare un po’ la nostra unità.
Perché, caro e amato, Me Stesso è di entrambi (almeno)
Ed entrambi dovremmo cooperare.
Affila la penna, battila finché è ancora calda
discorsi smussati senza filo, dicono?
A me lo scalpo, reciso a suon di rima!
Liberati, Amato Me Stesso!
Spogliati della paura, del rimorso,
del ricordo, della nostalgia!
Scatena sopra il mondo saette di versi,
Fai tremare col tuo respiro una sala gremita,
e furioso abbatti su di loro la sfrenata massa dei tuoi Pensieri!
Cibati di quei silenzi,
Quei Grandiosi Silenzi
che rotti al momento giusto fanno crollare gli imperi delle convinzioni altrui.
Riempi i polmoni e veleggia verso terre lontane, create dal tuo solo inchiostro
Inverti il finale e l’inizio dei tuoi pensieri, e poi sostituiscine il corpo,
inonda ogni tuo personaggio di cupa solitudine, guardali annientarsi,
osservarti dal basso per ricevere un goccio nero di compassione,
una cosa minuscola, Amato Me Stesso, che tu tanto vuoi, ma che solo IO
posso darti, se mi concederai di ricongiungerci. Io potrò darti, lo stesso
che tu neghi ai tuoi creati.
Un punto.


Non basta

Io sono due. Aggiungerei che Noi siamo Uno.
Saremmo.
Sei rimasta sulla pelle come l’ultimo raggio di sole estivo
Trapassando qualsiasi strato. Hai toccato.
Quando finisco qualcosa, poi posso riprendere da dov’ero prima di iniziare
Ma tu, sei stata l’Inizio. Cosa c’era prima?
Prima di riempirsi la pancia c’è stato il mangiare,
Ma quando non avevo un fuoco, una tavola
come mi nutrivo?
In due è mangiare, da soli è nutrirsi.
I tuoi occhi; ho la fortuna che le mie parole non hanno
Io li ho avuti, per me, mentre loro stanno qua
E non sapranno mai come sono, e lo vorrebbero davvero
Io lo vorrei che leggessi, io vorrei che le accompagnassi
Tu, che sei l’unica per cui abbiano un senso
Che possa capire tutto, che possa inciampare
Con me
In un filo attaccato al pavimento con lo scotch

Invece stanno qui, in fondo al pozzo.
E tu da su
Coi tuoi riccioli scuri hai fatto la notte
Col tuo sorriso hai tracciato la luna
Con le tue lentiggini hai popolato la volta
E io guardo.
E non basta. Non basta.


Verona

Neanche l’ultima gioia stretta tra le mie fredde dita
riuscirete a strapparmi con i vostri lamenti
le vostre commiserazioni e la vostra culturetta.
Lo zampillare di paroloni e di opinioni precostituite
Troverà in queste orecchie
Un muro così solido
Che, per dio,
prosciugherà la vostra fonte di idiozie
senza che ne sia nata una sola foglia.

Non vi è vita nel cibo già masticato
e per questo Verona dovresti dolcemente
come dite voi?
Passare a miglior vita
In verità sarebbe semplicemente passare a Vita,
che nei confini cittadini questa parola non si è vista
non vi è fremito, né sguardo infuocato alcuno
passione, irradiazione, esplosione d’animo
Non vi è un dinamitardo o un bombarolo,
una scissione di atomi studenteschi che rimbombi
per Via Mazzini
qualcuno che viva di vita e di vita muoia.
“Quanti grammi?”, davvero è questa la domanda di sinistra più in voga?
Davvero a sbornie si ravviva l’aria irrespirabile?
Sì, eccome, da dietro a un computer leader di una rivolta silenziosa
Così silenziosa che è morta e non ce ne saremmo accorti se solo
non facesse così freddo.

Non basta. Non ci stiamo ponendo di cambiare il Mondo
ma di ritornare, al Mondo. E non basta, non basta porselo.
Cosa fai tu? Scambi monologhi per applausi
a rassegne che hanno per nome giochi di parole
per assordarci col tuo ego?
O apri un’associazione per il gioco intelligente,
perché te e i tuoi amici volete muovere pedine senza sentirvi in colpa
di non star facendo altro, che appunto, muover pedine?
Oppure certo, promuovi l’università, il tuo dipartimento
l’ateneo! Crea contatti con tutti, conosci più gente che puoi
vai in Erasmus, scappa dall’eco dell’abisso che risuona nel tuo cranio!
C’è chi con Mille amici ha fatto l’Italia, perché non allora avere diecimila conoscenti?
Magari ci facciamo una pagina Facebook.

E tu che stai qua? A scrivere? Che fai? Che cambi?
Appunto. Io sto qua.
Scrivo.
Faccio.
Cambio.


Il guardiano notturno

Ciao sono io,
posso entrare?

Di notte faccio il guardiano, e per il resto dormo. Io vivo due notti ogni giorno.
L’eco dei miei passi all’ombra delle enorme magazzino, mi risuona in testa
nel sonno.
Quando vado a letto tu ti svegli.
Ti cerco.
Non potrei fare la guardia a te? Starti a guardare, tutta la notte
dormire.
Osservare la tua mano quando si contrae leggermente, e afferri qualcosa in un mondo profondo.
Appoggiarti una mano sulla schiena e sentire il tuo respiro.
Mi metterei in divisa, a letto. Farei le parole crociate con la torcia stretta in bocca.
Un lavoro così non te lo scrolli di dosso. Non ci torni più a dormire la notte.
Non bene.

Iniziare non era stato facile.
Nelle prime tre settimane la cosa più difficile era restare sveglio.
Poi ti ho conosciuto. I sabati sera a vagare insonne per la città.
Dopo, la cosa più difficile era dormire, sapendo che tu eri sveglia.
Per te dev’essere stato l’odore della mia cena durante la colazione.

Ma a volte, non si potrebbe pensare:
tutto ciò che mi serve
è sapere quando la tua mano si schiuderà?


Gira

Ti prego, lasciami perdere
Se per strada, in ufficio, all’università, al semaforo, incrociamo lo sguardo
E io per un attimo sento davvero di avere un contatto

Non c’è niente di vero, lo so bene, lo sappiamo entrambi
Che non c’è più niente che si possa ancora fare per riconoscerci tra simili
Lasciami perdere.
Amica mia, lasciami perdere.
Se mi ricordo tutto
Tutta la sincerità sprecata
Tutti i fondi di discorsi che ci siamo scolati senza venirne a capo
Le urla, oltre le mura della casa e quelle del suono,
Oltre la violenza, per stilettare la milza e piegarci, fino a sdraiarci per terra
Fino a schiumare bile

Sale un’ira che mi rende l’aria irrespirabile
Mi bruciano i polmoni e sento tuonarmi il petto
Di una tristezza che scende nel profondo di abissi
Siamo spietati con tutto ciò che è nostro
Servirebbe che mi restituissi quello che ho perso
Tutta l’autostima, il credersi capaci di qualcosa,
Non l’essere, ma il credersi, la capacità di aiutarsi da solo
E non solo girare, e girare, e girare, e girare
Senza andare da nessuna parte.

Che messaggio diamo,
Cosa scriviamo, perché non dovrei più farlo
cosa ci resta, amica mia,
Ora più che mai
Ora che mi sei più intima perché sei rimasta un’idea
L’ombra del sole, e non se ne va
Che resta in questa testa.
E gira, gira, GIRA!


1° Maggio – In democrazia.

Interveranno tutti, chiunque parlerà
uno sopra l’altro, in un’accozzaglia di parole
che suonerà come la frizione di pietre lapidarie.

Chi avrà la bocca, sarà abituato a non avere orecchie,
chi avrà diritto, sarà abituato a esigere come se non ne avesse
chi non avrà diritto, sarà abituato a non disturbare.

Starò in disparte.
Quando il Sindacato, il Pensionato,
il Politico, lo Studente, il Manager
Parleranno del lavoro, come se lo conoscessero,
sarò abituato a non disturbare.


Taxi a Roma alle 4 di mattina

Dove sei, cosa fai
Quanto è grande il tuo letto?
Chi sei, come mai
Vai a dormire col rossetto?

Non lo so. Sei salita sul mio taxi, e ho solo potuto guardarti nello specchietto.
E adesso che scendi, mi dai la mancia con lo sguardo coperto dal cappello,
Sarai stata un riflesso?
Tu che ti allontani,
In una Roma che chiama i tuoi vent’anni
Che mi hai sfiorato le mani nel darmi i tuoi spiccioli
Quanto piccoli saranno i tuoi occhi rispetto a quel lampione?
Quante persone t’hanno visto alla stazione coi tuoi riccioli?
Io resto sul sedile anteriore, e porto via le vertigini del mio Cuore
Spero anche le tue, come la lacrima che c’hai sulle lentiggini

Amore mio, non t’ho mai incontrata
Ma se fosse, che ti ubriacavi d’un taxista?
Torno a casa, che c’ho moglie
Debiti, e tante vergogne.

Anche se te l’avrei chiesto il Cuore
Per sentirmi dire “Tié materialista
Bevitelo. Come un Peccatore, il suo liquore”
Ah, se vorrei essere un Peccatore. Ahia.

Dove sei, cosa fai
Un giro nel mio retrovisore?
Chi sei, come mai
Ti vedo sul sedile posteriore?


Alla Tua Ricerca.

Un ragazzo dell’uomo che diventerà
Immerso nella nebbia del mattino
Si dirige al tavolino con serietà
Riponendo tra le sue dita un’aspettativa

Si concretizza in una matita tra le dita
E disegnando occhi grandi come il mare
Lentiggini e un’Anima di graffite
Si dona una donna da amare

Si fissarono a lungo e si riconobbero come se in un’altra vita fossero stati chiave e serratura.
Poi, l’Uomo del ragazzo che fu, mise l’occhio nella macchina fotografica e puntandolo sul ponte, vide un disegno colorato che ricambiava lo sguardo attraverso un altro obbiettivo. Scattarono il loro primo incontro, e lo appesero al soffitto della camera da letto, ricavato in una soffitta di un palazzo del centro.
Un sabato mattina qualsiasi, il disegnò sparì dietro una porta che sbatteva.

Quello che restò, fu l’odore della carta sul cuscino.


Prologo – Il messaggio

(Entrano Malopasso zoppicante e Gyl alticcio)
Malopasso: Forza Gyl, dovevamo essere al castello già al levare, se arriviamo col cielo rosso sarà lo stesso colore delle nostre guance per i ceffoni che prenderemo!
Gyl: Speriamoci allora mio caro Malopasso, quanto meno nasconderà il motivo del nostro ritardo, ma l’importante è che non ci tagli le mani come al vecchio Faub, perché bere tenendo il bicchiere in bocca è assai scomodo!
M: E allora affretta il passo!
G: La fai facile tu…
M: Ma se sono zoppo!
G: Appunto! Quella tua diavolo di gamba è allenata anche per l’altra. Scommetto che potresti saltare così forte da lasciare due dita di impronta nel terreno.
M: Stai sostenendo che gli zoppi vanno più veloci di chi ha due gambe buone?
G: Dico solo che se le mie gambe fossero come la tua riuscirei a stare al tuo passo, ma essendo diverse vado a un passo diverso
M: Infatti dovresti essere più veloce.
G: Ma non vedi come tremano le mie di gambe? Ad aiutarsi l’un l’altra si sono viziate.
M: Certo, hai bevuto per tre ieri e con qualche parte di te dovevi pur spartire.
G: Ah il vino è come un padrone sadico: prima di accarezza e di fa sentire suo beniamino, e poi ti bastona senza darti un motivo.
M: Il messaggio ce l’hai ancora o ti sei bevuto anche quello?
G: Me lo sarei bevuto volentieri se l’oste l’avesse accettato come pagamento, ma i messaggi reali sono una merce che pochi vogliono maneggiare senza usare le mani d’altri.
M: Hai cercato di barattare il messaggio per denaro? Se Dio c’era, così ci siamo giocati la Matta. Anche lui avrà finito la pazienza.
G: Ma non preoccuparti mio caro amico!  Ho sempre un asso nella manica…
M: Ti sarai venduto anche quello.
G:  … già, con tutta la manica.
M: E allora ringrazia d’essere ancora vestito. Su, dammi qua il messaggio. Lo terrò io.
G: Sì è meglio, così posso aiutare le mie povere gambe… a sedersi! (Si siede)
M: Oh Gyl, non è il momento per riposarsi se non vuoi che quel tremore diventi freddo rigor mortis!
G: Un minuto! Se dovremo arrivare tardi ci arriveremo comunque!
M: Questo senz’altro ma cercavo di togliere alla colpa un po’ di disonore, ma mi pare di capire che ormai abbiamo concesso set, partita e campionato alla vergogna.
G: Ehy amico Malopasso, vuoi sapere una fatto proprio strano?
M: I fatti strani li raccontano i sobri, gli ubriachi dicono solo assurdità. E se tu fossi sobrio sarebbe già di per sé un affare strano.
G: E allora senti questa fratello di bevute. Lo vedi quest’albero?
M: Una quercia.
G: Bé una quercia senz’altro demoniaca.
M: Ecco le assurdità. E perché mai?
G: Sai bene che il due è il numero del peccato no? Della divisione, del corruttibile…
M: Sì sì, sermoni da prete.
G: Bé le foglie di quest’albero puoi accoppiarle tra loro, e non te ne rimarrà fuori neanche una.
M: E tu cosa ne sai?
G: Lo so perché le ho contate.
M: Ma se siamo qui da un minuto!
G: Non devi sentirti in imbarazzo. E ti dirò di più mio caro Malopasso, le coppie possono a loro volta essere messe in coppie! Quest’albero è assolutamente peccaminoso.
M: Sei ancora ubriaco, assurdo. Questo è qua dal battito d’ali di una tortora, e dice di aver già contato oltre cento volte le dita della sua mano! Ma guarda neanche si distinguono le foglie, neanche se le contassi col dito riusciresti a seguire il conteggio! Tu spari panzane!
G: Basta, zoppo! Vuoi darmi del bugiardo, e io do a te del calunniatore. Ti sfido a contare e verificare se non dico il vero! Ma se non lo fai, ricacciati la lingua in bocca e tieni le tue accuse per chi ne è avvezzo, perché Dio mi fulmini se mai qualcuno ha avuto ragione a dare del bugiardo a Gyl Lannet!
(Silenzio)
G: Allora?
M: Visto che sei così ostinato nel raccontare le tue menzogne, è ora che qualcuno ti dia una bella lezione. Staccherò e conterò ogni singola foglia, e quando non torneranno i conti ti farò offrire da bere dieci giri a tutto il villaggio per lavare la tua onta.
G: E tu alla fine della conta ne offrirai a me cento, e sarò contento così, senza macchie e senza lavaggi.
M:Bene!
(Malopasso si gira e comincia a staccare foglia dopo foglia.  Gyl senza farsi vedere, stacca tre foglie e se le mette in tasca)
G: Aspetterò pazientemente, e controllerò che tu faccia tutti i conti giusti.
(Gyl si cala sugli occhi il cappello e comincia a dormire)
(Buio)
….
….
(Quando la scena riprende, Malopasso ormai è visibilmente sfinito).
M: FINITO! Maledetto bugiardo!
G: Adesso vediamo.
M: Le ho staccate tutte, e tutte le foglie sono in una coppia.
G: E fino qui ci siamo.
M: Già, se non fosse che hai voluto strafare, maledetto ubriacone, ed ecco che formando le doppie coppie, me ne avanza una!
G: Hai una coppia in più dici?
M: O una in meno, che dir si voglia!
(Gyl lascia cadere dietro di se due foglie)
G: Mmm… (passeggia avanti e indietro)
M: Come vedi o messo tutte le foglie in fila ordinate e raggruppate. Trova l’errore se c’è, altrimenti, scuci il borsello maledetto ubriacone!
G: No infatti, i conti mi sembrano fatti bene. Non è che te ne sei persa qualcuna?
M: Ecco, ora tira fuori la scusa del vento per provare a rimediare alle sue panzane! Ma se vuoi salvarti dalla tua meschinità dovrai fare di meglio che inventarti una scusa qualsiasi!
G: E quelle due lì perché non sono in ordine allora?
(Silenzio. Malopasso si avvicina, le prende in mano e le guarda. Le mette nel gruppo assieme alle altre)
G: Ecco adesso ci siamo!
M: Io…. Io… Quelle due… ma…
G: Su su dai. E adesso affrettiamoci, hai visto che il cielo è rosso? Questa sera avremo entrambi le guance rosse se non ci sbrighiamo, e io sarò anche piuttosto felice di averle!
M: Santi numi! Il messaggio! Presto Gyl! Presto!
(Malopasso esce zoppicando)
G: Incredibile vero? Farebbero notte per darti del bugiardo, e quando stanno dall’altra parte del dito diventa improvvisamente tardi!
(Gyl esce)


Diario di Linus

(Voce fuori campo. Uomo al centro della scena che scrive)
Diario di Linus: Anche oggi la guerra continua. Il telegiornale delle otto ha scaricato il solito carretto di corpi mutilati, arti martoriati e coscienza sporca sul piccolo schermo. Ogni mattina ci tuona nelle orecchie la campagna di sensibilizzazione che ha ormai assunto il ruolo di anestesia. La mia mente callosa non prova più niente per queste schifezze, e la disumanità della mia indifferenza mi impone di guardare altrove da me.
Sta mattina ho trovato un uomo senza un braccio sul tappetto fuori dalla mia porta. La cosa che più mi dava fastidio era la sua asimmetria. Sì, sono diventato mostruoso, ma d’altronde il tempo dell’ipocrisia è finito quando è stato premuto il primo grilletto. E poi quel braccio forse l’ha perso per causa mia, e mi è passato davanti in qualche speciale alla TV sui profughi. Quindi preferisco chiudere la porta e aspettare che se ne vada. Guardare altrove.

Monica: Mmm… Linus, sei già sveglio?

(Voce fuori campo): Ogni giorno mi chiedo come in un tale inferno Monica possa trovare un posto. La sua bellezza è sempre più cruda e indifferente di quanto non sia io. Forse perché ha sconfitto la morte tanto tempo fa, quando una bomba cadde esattamente sopra la sua casa e lei ne uscì praticamente illesa. No, dannazione, lei è oltre tutto questo, un perfetto frammento di diamante disperatamente indistruttibile. La sua vera disperazione.

Linus: Sei riuscita a dormire?
M: Abbastanza…

(VFC): Questa notte ha dormito eccome. Io è da così tanto tempo che non chiudo occhio la notte, che non ricordo di aver mai sognato. Monica la notte si addormenta in un russare che sa di lentiggini.

Linus: Spero tu stia bene perché hanno abbattuto l’ospedale sta notte. Ora per i raffreddori bisognerà fare duecento kilometri.
M: Sapevo che dovevo andare ieri a prendere le aspirine.
(Monica prende una bottiglia dal banco)
L: Il Bourbon secco alle otto di mattina, Monica?
M: Perché è troppo presto o troppo tardi?
L: Berlo senza ghiaccio è un delitto.
M: Lo è anche annacquarlo con inutili questioni come le tue.
L: Bere alcolici senza sentirsi in colpa ne dimezza il sapore.
M: Berli parlando li fa andare di traverso.
L: Se prima di bere parli così tanto, avrai la gola secca a ogni bicchiere.
M: Meglio rimediare allora. (Beve un bicchiere) Hai ragione, ho ancora la gola secca (Versa un altro bicchiere)
L: Sarà meglio aggiungere alla lista il Whiskey.
M: Mi stai dando dell’alcolizzata?
L: Solo se ti offende. Oggi mi sembri un po’ irascibile.
M: E tu un po’ troppo tu.
L: Qualcosa non va?
(Silenzio)
L: Mi dispiace, so che in quell’ospedale c’era tua madre.
M: Linus, perché?
L: Se quel perché è il solito perché, allora voglio una bottiglia anche io, perché se litighiamo da ubriachi sarà più facile perdonarci domani.
M: Perché c’è questa guerra?
L: Io non ho la mia bottiglia.
M: Non è il solito perché.
L: Preventivamente passami la bottiglia.
M: Rispondi.
L: Per lo stesso motivo per cui esistono i tuoi occhi. Sai perché esistono i tuoi occhi?
M: Perché io possa vedere.
L: Quello è il tuo motivo. Tu hai chiesto il mio motivo. E il mio motivo dell’esistenza dei tuoi occhi è perché io li possa ammirare ogni giorno.
M: Ammiri la guerra?
L: Quando annaspi nel fango, nella morte e nella paura per dieci anni, l’unico modo che hai per sopravvivere è capire dov’è il bello.
M: Non c’è niente di bello nella guerra.
L: Ovunque c’è bellezza. Non vedi la bellezza di un uomo che ogni mattina si alza dal letto e si trova bere alcolici con un angelo come te?
M: No, non trovo niente di bello nella devastazione fuori da questa finestra.
L: Allora devi guardare dall’altro lato. Anche fuori c’è la bellezza, ma è poca, e negli occhi di chi guarda. In tempo di pace tutto è bello, quindi niente lo è. Con la guerra la bellezza… risalta di più.
M: Tu non ne sai proprio niente della guerra.
L: Hai ragione, ne so così poco che posso parlarne col dovuto distacco.
M: E imbarazzante ignoranza.
L: L’unico imbarazzo che ho, è nei tuoi shorts.
M: Poi mi chiedi di vedere la bellezza in questa stanza…
L: Se mi fissi negli occhi forse riesci a vederti.
M: Sento cielo Linus, che sdolcinato.
L: Scusami, è che io non ho ancora avuto la mia bottiglia.
(Monica gli mette una bottiglia sul tavolo)
M: Perché non la fai finire questa guerra?
L: Eccoci qua.
(Linus si versa un bicchiere)
M: Ti costa tanto mettere da parte la tua indifferenza?
L: Mi chiedi di separarmi da un dono così raro?
M: Ti piace non sentire niente? Fare il morto a pelo d’acqua?
L: A te piace essere Monica? Certe cose di me non posso sceglierle.
M: Tu non vuoi scegliere.
L: Evidentemente scegliere è una scelta che non ho.
M: Sei pesantissimo.
L: E se tu avessi uno stomaco forte come la tua lingua potrei evitare di preoccuparmi di chi dovrà pulire il bagno tra mezz’ora se continui a bere a questo ritmo.
M: Dovresti preoccuparti di più delle tua guancia destra.
L: Perc..
(Monica gli da uno schiaffo)
L: Wow….
M: Perché non la fai finire?
(Linus beve con calma)
L: Perché io sono l’ago della bilancia. Quello che fa la differenza. Sono il voto che crea la maggioranza, la parola in più che convince la ragazza a tornare indietro, quell’occasione che se la cogli ti cambia la vita. E tu hai idea di cosa comporti esserlo? Io non ho mai voluto esserlo. E non avendo scelto questa situazione, non vedo perché ora io dovrei scegliere.
M: Non scegliendo hai fatto una scelta.
L: Monica, questa è retorica molto bassa, e la retorica annoia lo spettatore.
M: Tu ne stai facendo da almeno venti battute.
L: Se questa guerra finisse, la gente tornerebbe in strada. Sorriderebbe. Sarebbe di nuovo bella. E io dovrei vedere il tuo fiore dibattersi in un prato pieno di migliaia, milioni di simili. Così invece nel caldo e arido deserto, sei bella e indistinguibile. Se la guerra finisse, te ne andresti. E mi spieghi dove poggerei le mie mani la notte, senza i tuoi fianchi? E i miei occhi dove troverebbero compagnia se non nella coppia dei tuoi seni?
(Monica da uno schiaffo a Linus)
L:… E cosa butterei nei miei polmoni senza l’ossigeno dei tuoi capelli? E come mi disseterei la mattina senza la brina sui tuoi petali?
(Un altro schiaffo)
L:… E chi sopporterebbe il mio Amore, chi porterebbe il mio Affetto al suo petto?
(Schiaffo)
L:… E il mio Odio ogni volta che guardi altrove.
(Schiaffo)
L:… E come farei a mangiare  (Schiaffo) bere e dormire (Schiaffo) senza tu che mi dici quanto (Schiaffo) ti faccio (Schiaffo, schiaffo) irrimediabilmente (Schiaffo, schiaffo, schiaffo) SCHIFO??
(Monica tira un urlo isterico ed esce dalla stanza)
(Linus guarda il soffitto per un paio di minuti, poi si ricompone e torna a scrivere)

(VFC): Ha le mani morbidissime, delicate. Due rose che a ogni schiaffo sì fanno più male di chi lo riceve.
Maledizione a te, Monica, che ieri non sei andata a prendere le aspirine.


Per. Me.

Ditemi quindi cosa dovrei fare.
Adattarmi all’etichetta?
O al contrario non volerne
E rimanere nel non-stabilito?
Non sono di queste scuole.
Ho la pretesa di scrivermela,
Appiccicarmela e staccarmela io.
Non si dica “Labrusco” all’Amarone, o non lo si spacci per tale,
alle sue spalle, con l’infamia di volerne abbassare il prezzo
O il bevitore si troverebbe certo una sorpresa nel digesto.

Banchettate pure nelle città d’Arte, che diventino Musei dell’Omicidio di questa.
Nella vostra pantomimica sregolatezza e nelle vostre gare di stranezze
Santa Croce urla, dalle tombe si lamenta chi esiliato fu davvero
da quanto amava, e l’Amore lo imponeva alla sua penna.
Si ha tempo di parlarne solo se a viverlo non si può.
Ma a me non risulta che ne Papa né Imperatore abbiano emanato bolle o diktat
di cacciata verso nessuno di voi, né di recente né in altro tempo, miei cari spero mai sodali.
Parrebbe il vostro cancro non sia altro che ipocondria mal gestita,
esibizionismo, noia o qualsiasi altra cosa al di fuori della vera, seria, malattia di
sentire e vedere.

La Grandezza non ha da essere stabilita a un tavolo piramidale
ma ha da esistere.

E se dovessi malauguratamente aver usato un parlare troppo rococò
Allora segue una sintesi.

Vaffanculo.


Il mio diaframma

La morte è perdere l’avere
Come causa del non essere.
Questa idea nasce dall’astratto dei suoi discorsi
Perché se un’emozione, una
poteva ancora esserci, praticamente intendo
In senso concreto, c’era perché esisteva
batteva, si dimenava, scoppiando nel suo cuore
e negli arti
o anche solo flebilmente si manifestava
in un brivido sulla schiena
facendole leggermente traballare l’anulare
dall’eccitazione
bé l’ha persa, perché lei… le sue parole
sanno di morto.
Pontifica sul bello e cattivo tempo,
che tanto a un bancone
si può parlare del mattone
con la leggerezza della piuma,
con la leggerezza di chi ritiene morto
qualsiasi cosa al di fuori di sé medesimo,
perché vuole capire tutto
ma Sentire, solo sé medesimo.
Per lei è infantile intuire il mondo coi sensi
cinque, più mille di cui non si parla. Percepire.
Sì, meglio spiegare, ragionare, pensare
trovare il nesso, cavillare sul pelo nell’uovo
Ma lo capisce che NON PUO’

non può essere “Nell’uovo” se l’uovo è chiuso.

Lei, ha da stare bene attento.
Per sé stesso. Col suo archetto
Perché tutti la devono sentire
A costi di far perder di colore la sua voce.
La morte era già evidente in come disegnava
le sue parole, ora lo è anche
per come le colora.

I vostri archetti.
Sarà sempre guerra.
Tra i Vostri, archetti.
E il mio diaframma.


Interessante…!

Vorrei raccontarvi qualcosa di tremendamente interessante, ma non ho per voi nelle mie tasche niente che brilli abbastanza da lasciar tutti soddisfatti, me compreso.
“Interessante”.
Questa parola mi perseguita. Questa ossessione che mi si è appiccicata addosso e che blocca ogni slancio.
E’ una delle parole più terribili che conosco. Un aggettivo che si avvinghia, e come l’edera ti soffoca dal basso all’alto. Una di quelle parole che ti mettono alla prova.
Penso: la cosa meno interessante che conosco è una casa vuota. Niente animali, niente persone, mobili, lampade, giacche appese in entrata (le giacche potrebbero raccontare un sacco di cose interessanti, con le loro toppe). Qualcuno potrebbe cercare di capire perché quella casa è così vuota, che storia c’è dietro. Vi risponderei che non ne ha. Non c’è sempre “qualcosa” dietro. Non c’è sempre un tesoro in cui imbattersi, con cui appagare la propria sete da avventurieri del Terzo Millenio. Le stanze sono così piccole che nemmeno il suono rimbomba ripresentandosi come eco. Tutto ciò che passa dentro, passa. E basta.
Queste case esistono e a qualcuno creano un inquietudine fottuta: niente da fare, da pulire, da sistemare. Puoi solo passare, restare, andare. Non ci sono motivi sulle pareti, che potrebbero portare gli ospiti a distrarsi contando i fiori o cercando regolarità del disegno, simmetrie sfalsate da un tappezziere alla buona. Un piccolo appartamento di stanze bianche senza storia.
Non è interessante.
E non c’è niente di più pacifico, calmo, sereno di quel maledetto vuoto. Non ha pretese o bisogni. Se cerchi “Interessante”, trovi “Noia”.
Non ci vivrebbe bene nessuno, eppure direi che sono l’unico modo per essere felici, le piccole case vuote di stanze bianche.

Per dirvi qualcosa di strabiliante mi basterebbe essere un cavaliere sul suo Ronzinante, senza macchia ma con ombre. Chi non ha ombre, nel suo passato?
In realtà, molti non ne hanno. Ce le inventiamo. Per essere… appunto, “Interessanti”.

E’ una vita che cerco le mie ombre. Avrei qualcosa da raccontarvi, su cui costruire frasi fraintendibili e oscure, facendovi incespicare in indizi qua e la, in parole e metafore interpretabili in modi così individuali che a confrontarvi tra di voi scoprireste di aver letto frasi diversi, di altri scrittori magari.
Io non ne ho.
E le macchie, cerchiamo disperatamente di allontanarci dalle macchie buttandoci in lavatrice, sconquassandoci di menzogne e asciugandoci con le lacrime (un pianto, se ben interpretato, asciuga qualsiasi dolore e peccato).
Oppure ci macchiamo così tanto da sentirci tinta unita, che non si ricordi mai più il nostro colore, se non per i racconti dei genitori nei Natali futuri a luci intermittenti led dei nostri alberi sintetici. A ogni parabola della nostra infanzia candida e “poco Interessante” facciamo spallucce, abbozziamo mezzo sorriso, e riempiamo il bicchiere di Marsala. Quasi non ci appartenesse, quasi a dire che non fossimo noi.
Il tempo non cambia le persone. Le rende solo più sé stesse. Il tempo crea coerenza con la nostra infanzia.

Di fatto, veniamo al Mondo frignando, e il più di noi ad oggi ancora si piange addosso.


Brindisi

Ti brindo. Ancora.
Perché te ne sei andata ma come suol dirsi, resti a questo mondo.
Mentre io scivolo sui vetri
Delle parole non dette
Delle maschere indossate
Con orgoglio
Di chi ha la presunzione del controllo
E l’ambizione d’esser
uomo.

La verità?
Pensavo di averti mia
Vinta, per sempre.

Sono stanco
e penso:
me ne andrò.
Adesso.

Ti scriverei qui, ancora
Sapendo di non essere letto
Per il gusto di poter Amare
Senza il rendere conto.
Ma a te questo posto non piace
Io, non ti piaccio.

Penso:
me ne andrò.
Adesso.


Sveglia.

Troppo stanco per dormire, hai presente?
Ti metti a letto a leggere. Non ti viene sonno ma spegni la luce. E resti in attesa. Del nulla.

Mi assale un vuoto terribile, una sensazione di risucchio in me stesso.
Non ho nemmeno più un cielo, solo cemento bianco. Tingimelo d’azzurro lasciando qualche spazio e raccontami che sono nuvole. Non ti crederò. Perché oggi sono già morto almeno quattro volte per conto mio.

Siamo tutti lavandini da sgorgare. Ora è il momento in cui il mio lavabo e pieno d’acqua e prendo la ventosa per sturare. C’è da sporcarsi le mani, e non sarà piacevole.
Annaspo in me stesso, in tutti i miei gorgogli. Mi aspiro. Sigaretta umana.

Ho le palpebre che esplodono, che fanno male senza chiudersi. E’ una tortura, l’insonnia. Sapere che tra 4 ore sei di nuovo in piedi.
Vivere sempre mai del tutto sveglio e mai del tutto addormentato.

Fatti domande, fuggi le risposte. Consumo il tempo a velocità variabili e aspettando desideri diversi nei vari battiti. Io aspetto che mi manchino. Pum, e l’ultimo colpo è quello del corpo che cade.

Voglio lamentarmi dei problemi inutili ed essere forte per le vere difficoltà. Lo preferisco, piuttosto del contrario.
Mi accorgo di bruciare solo quando vedo il fumo uscire dalla mia testa.
Vorrei una malattia. E non cercare più di morire in modi socialmente accettati.
Farla finita e basta. Avere più coraggio di voi.

Suicidio non è fuga. E’ il suono della sveglia.
Sveglia.


Morire di tempo.

Lo so da quando non riesco a guardare più umano negli occhi. Perché dovrei, amica mia, flagellarmi ancora nello scrutare il vuoto assoluto delle pupille dilatate di un rozzo straniero? Giace in piedi davanti a me, e nel suo tocco non c’è la metà della vita che cerco.
Io di mio ho una qual certa difficoltà ad attaccarmi al battito cardiaco e al respirare, sebbene il soffocamento, per apnea o per routine, mi causi una certa sensazione di disagio. Ma è un paletto nel cuore sapere che anche gli imbecilli nella più spensierata inconsapevolezza, non si buttino nelle onde tumultuose della selvaggia esistenza spontanea. Che fare?
Oltre a spandere inchiostro, s’intende; a parlare di zucchero con l’acido sulla lingua. Una certa voglia di morte m’intasa la sfera della penna, e i grumi che tossisce vorrebbero trattare temi più dolci con altri colori oltre al nero. Ma non si scappa alla propria natura, le ali piumate non ti spuntano se ciò che dici non sa altro di fanghiglia.
La conosci, la doppia ferita, del voler far bene e di riuscir a donare il male.
Siamo germogli sul cemento. Ti auguro di trovare una crepa e infilartici, perché spaccherai questo grigio,e con una forza…

Il bisogno di vederti, è quello di inseguire le mie ambizioni. A volte spero solo in un raggio di luce, una vibrazione, un cellulare che mi dica di venire lì. Di fare fagotto che finalmente ce ne andremo. Non ho nient’altro in cui credere, se non in una partenza. Con te, amica mia. Ma i mostri sono grandi, forti, e si nascondono. I miei sono ben sotto. Non chiedermi di tirarli fuori, mi vergognerei da quanto sono piccoli. Vieni piuttosto a vederli con i miei occhi. Diventa parte di me. Se puoi, vieni a prendermi.

L’orologio scorre veloce, e nell’ombra la colpa ha il suo terreno di avanzata. Quest’ora batterà ancora mille volte, lo sai? E chi la regge quella lancetta. Che lentezza. Tuonerà. Che mi tocca ancora contare.

Detesterei morire di tempo. Come vivere di me.


Pistola ad Inchiostro

… Io non riesco nemmeno a mettere in fila quattro pensieri.

Non riesco a darti tutta la mia rabbia, la mia esplosione interiore, il mio urlare. Ho una voglia di urlare… Spaccherei il cielo, e ti porterei quello che ci trovo dentro. Così, per dirti:”Non mi credevi?”.
L’inchiostro che trasportava i miei pensieri si è silenziato. Come una pistola. Sì, è una pistola silenziosa.
Siamo attorno a un tavolo, e questa pistola ce l’ho in mano io. Ti assicuro, è carica.

Dobbiamo stabilire contro chi puntarla.

Il prossimo che mi viene a parlare d’Amore è un ottimo primo bersaglio. Voi e le vostre relazioni scialbe, i vostri rapporti in cui non vi dite metà delle cose. Le verità non dette sono bugie, e le bugie sono tradimenti. Per cui, mi fate schifo. Io odio i tradimenti, mi dispiace, è nel mio DNA di essere umano dignitoso. Vi farei provare metà di quello che sento io adesso e farei impallidire ogni vostra passione, ogni sentimento che avete ritenuto insostenibile e assoluto sarà solo Natura Morta, un sapore così insipido da farvelo sputare indignati dal pastone dell’affettività moderna. Lo so, che lo fareste, perché io sono stato come voi.
Ammazzerei chiunque mi venga a dire che ha Amato davvero, qualsiasi, singolo, imbecille che ha la forza d’animo di sporcarsi le labbra con quel veleno di falsità, quelle frasi fatte da TV dei ragazzi e da stereotipo borghese post “Tempo delle Mele”. Maledetti profanatori di tombe, avete ucciso le MIE parole e ora ve le scopate come se ne aveste il diritto… Imparate ad odiare, prima di Amare, non avete più la rabbia nemmeno per fare una rivoluzione, e volete parlare di Amore, con la vostra Necrofilia letteraria.
E io con che diritto parlo? Bé, io, ho la pistola in mano. Un uomo con la pistola avrà sempre ragione di un uomo senza pistola. E voi, non l’avrete mai una pistola come la mia.

Ucciderei tutti quei maledetti mediocri che si sono fottuti il mio futuro per una canna e tre giorni di autogestione concordata col preside della scuola. Questa è la vostra protesta generazionale? Sto facendo più io dietro un computer in un’ora, che voi in cinque anni di manifestazioni. Vi sto mettendo in faccia la cruda realtà: il Mondo non si cambia facendo ciò che ci piace o ci conviene. Col dannato sacrificio, sporcandosi le mani e facendosi odiare, rimanendo, fottutamente, soli. Quando sarai solo, troverai la voglia di cercare qualcuno. Fino ad allora, accontentati di sventolare una bandierina in piazza o di fare seminari di ore sulle aromaterapie. Fatti passare l’incazzatura col Sandalo e la Malva, io preferisco sputare su quelli come te. E se porgi l’altra guancia, tranquillo, ho una produzione di saliva sufficiente per accontentare il tuo senso di colpa da Cattolico Medio.

Continuo a sparare, e la mia cartucciera è sempre più piena di colpi.

Ma te non riesco, cazzo, non riesco. Voi sparereste a Dio se ve lo trovaste davanti, bigottoni di provincia? No, non lo fareste, nonostante tutti i morti che ha fatto e continuerà a fare, per portare a termine il suo “Progetto Divino”, più importante di tutti voi messi assieme, bestie sacrificali da ventunesimo secolo; siete su un altare grande come il mondo e vi va bene.
Per me, è lo stesso. Tu sei stata la mia Religione, la mia Fede più intima, e lo rimarrai sempre, per quanto possa sprofondarmi nel dolore, e vomitare ogni tossina. Non potrò fare altro che Amarti.

Vi insegno qualcos’altro. Non c’è Amore senza Odio. Altrimenti, è solo indifferenza. Piatta, come il vostro elettrocardiogramma nella vita di tutti i giorni. Senza alti e bassi non c’è vita, ve l’ha insegnato una linea luminosa su uno schermo decine di anni fa. E ancora cercate “l’equilibrio” cazzo, ahahahah! L’equilibrio dev’essere la media dei valori, non averli sempre tutti monotonicamente uguali.

Dolcezza, io di passare un’altra notte insonne a maledirmi per quanto sono incapace non ci sto. Per cui magari questa pistola me la punto contro, e vediamo che succede.
Al limite ci sarà un uomo armato in meno, nel vostro Mondo di maledetti Pacifisti del Pensiero.


Violentapatic

Se vivo una giornata col pensiero di vederti
E alla fine non succede
Sono morto per un giorno.

(La mia città, era bella.
Rimagono le rovine, dopo la guerra
E più penso che era bella
Più provo tristezza.
Golconda.)

Ho pensieri che corrono veloci
E senza te
Sono lasciati a loro stessi,
E io sono lasciato a loro.
Incubi.

Dentro un cubo scuro
Non vedo il muro
Non vedo nessuno
Sbatto da solo contro, che cosa?
Me stesso, suppongo.
A volersi abbracciare, da sé,
Si finisce a far male.

Mi cibo dell’aria, di altro nulla
Nel beige che mi circonda
Nell’indifferenza che temo
Nel mio freddo involucro
Monolitico e metodico
Mi accendo una sigaretta
E tossisco silenzio di Vita
No, l’opposto.

Mi verso lo Scotch, e deglutisco.
C’è chi beve per piacere
Io bevo per timore
Di vivere abbastanza
Per perderti.


Lampo Arcobaleno

Stavo posato su una panchina, sotto la pioggia di Aprile, oppure al Sole di un Autunno agonizzante. Che importa ricordare il tempo quando incontro te? Ti offenderesti davvero della mia disattenzione per il tuo smalto nuovo, se i miei occhi fossero troppo persi nel limbo dei tuoi?
A guardarti dubiterei della tua esistenza, se non fosse tra le tue mani viva la vibrazione della Creazione stessa. Passa sulla mia pelle, e in un brivido, intuisco il Principio. Tu Sei, e questo resta incomprensibile. Boreale. Non potrei dirlo con altrettanta certezza per Dio, che lui È. Tu gli sei quindi in ciò superiore? Addirittura, anche in questo? La perfezione visibile e materializzata nella solidità di ogni particella elementare che ti compone, rappresenta di per sé una sfida ad ogni artista che di penna, pennello o strumento si dice Maestro. Se tu non fossi Umana, saresti un Lampo Arcobaleno.
E seduto, o in piedi, ti vidi sul Mondo, che attorno a te girava opaco, invidioso, con la stizza di chi ammira la vetrina del Pasticcere dopo l’ora di chiusura. Io, vincolato a questa Terra, non potevo nulla con la mia Magia. Finiva ai piedi dell’indifferenza tuoi occhi di VetroMetallo Rovente.
Guardandoti soffrivo, ma in silenzio che per quanto potessi urlare comunque sarebbe stato sentito meno del granello di sabbia spostato nel deserto da un battito di Farfalla, e altrettanto insensato. Non sei Idea da bisbiglio o da grido, ma da Voce, priva di vergogna e solo per chi davvero vuole udirti. Il silenzio lo ottieni perché tutti vogliono sentirti.
Insensata sarebbe la tua Perfezione, se non potesse essere mia. Chi altro la coglierebbe con la mia consapevolezza? E chi dice che non la conosce o non esiste, o non ti conosce o non ha i miei occhi.
Io non riesco a passare nel vuoto dello sfondo in un Primo Piano, e non sopporterei la tua Vista senza il tuo Sguardo, e il tuo Sguardo senza la tua Attenzione, e la tua Attenzione senza l’Eternità, e l’Eternità senza il tuo Amore.
Non sarò in grado di accontentarmi, e in questo incespicherò morendo ogni giorno, malattia di sacra speranza e violento fastidio, come una preghiera ad occhi aperti davanti a una Croce mal fissa al muro.


Chain in loop

Quando salgo in macchina su una pendenza accendo gli abbaglianti, così illumino il cielo.
Se non ci fossero le stelle, sarebbe più bello, immenso ed infinito.
Qualcosa senza fine, è incompiuto.
Il punto è sempre sé stesso: definitivamente.
L’indefinito è qualcosa che non riusciamo a spiegare.
Ciò che non riusciamo a spiegare non è per forza illogico.
La logica dovrebbe essere regina, ma tutti se ne servono.
Servire non coincide con ubbidire.
La disubbidienza è conservativa.
Conservo tutto, tranne me stesso.
Io sono il mio più grande limite.
Un limite può tendere, ma non raggiungere
Raggiungere la vetta non soddisferebbe nessuno che sappia volare.
Se sapessi volare, potrei essere libero di restare a terra.
La terra suda l’uomo, e un giorno lo laverà via.
Lavarmi fuori è più piacevole che farlo dentro.
Dentro di me? A cosa c’è, non ci penso
Penso che non ho più idee.
Un’idea è l’istinto di usare la testa.
La testa è sempre stata la mia scelta, lanciando una moneta.
Ogni moneta ha almeno tre facce.
La faccia della luna è solo un monito divino alle tenebre.
La Tenebra è piena, mentre il silenzio è vuoto.
Se il vuoto non lo puoi colmare, vivi di placebo.
Il mio placebo preferito, è lo studio.
Studio il superfluo, perché racchiude la vita.
La vita finisce con scadenza mensile.
Il mese di agosto è il più freddo, perché ho lasciato acceso il condizionatore.
Condizionare l’aria non rimuove la pesantezza dei silenzi.
Il silenzio è oro, e per questo molte persone sentono la crisi.
Ogni crisi va gestita e risolta con la determinazione del punto sopraccitato.
Perché citare qualcuno, quando posso inventare?
Se volessi inventare un loop?
Per un loop basta chiudere questa frase con: loop.


Liberami

Lasciami

Perché?

Lasciami, ti prego. Lasciami.

Prima spiegami perché.

Io non ce la faccio.

A?

Lasciami.

Vieni qui.

No.

Dai.

No.

Ok.

Lasciami.

Dimmi perché

Lasciami. Lasciami morire.

E se ti lasciassi vivere?

No. Non voglio.

E se ti volessi?

Vai via.

E se vivessi per te e morissi pure io poi?

Vattene

Sai quanto sei bella…

Non guardarmi

…quanto ti adoro, ti stimo, ti voglio…

Perché me lo stai facendo?

 

… unica immortale bellezza cristallina vitrea inossidabile angelica…

 

Non senti quanto sono vuote le tue parole?

… entusiasmante attimo d’eternità celestiale unica gioia impetuosamente irregolarmente fiera …
(la voce dell’uomo si trasforma in un mormorio discendente, fino a diventare inorecchiabile, anche se continua a spostarsi e a muovere la bocca normalmente)

Non riesco nemmeno a sentirle, a percepirle… Non ti sento. E tu continui a parlare.

(Silenzio)

Non ti è mai importato che io ti ascoltassi.

(Silenzio)

Eri troppo impegnato a trovare parole convincenti, frasi perfette, convinto che un po’ di parlantina sciolta e buona dizione mi avrebbero domata.
(Silenzio)

Lo capisci che io non sono da convincere? Lo capisci? Mi senti? Ehi mi Senti? MI SENTI?

… Dolce melodia impareggiabile graziosa realtà tessuta nel sogno con te di una vita Eterna…
(Il mormoria si alza fino a “sogno”, e poi ridiscende)

Basta così.

(Silenzio)
“Lasciare” è sinonimo di “Liberare”.
Lasciami. A te, sono asettica. Non mi susciti più niente.

(L’uomo si blocca, rimane rigido un istante, poi si pone diritto, guardando la donna, immobile)

Lasciami.

No.

Lasciami.

No!

Lasciami.

NO!

(L’uomo corre verso la donna a testa bassa, e si ferma, appoggiando la fronte alla sua spalla)

Perché non mi vuoi libera?

Tu. Mia. Tu. Mia. Tu. Mia….
(L’uomo ripete questa litania calando di voce, arrivando a mormorarlo in sottofondo)

Soggetto e complemento. Temi il predicato, perché sai che è al passato.
… Il passato è solo il presente di ieri.

Oggi non è ieri.

Lo può essere.

No, non può.

Sì, se ce ne convinciamo.

Non ci riuscirei. Lasciami
(Si sposta lateralmente, mentre l’uomo rimane immobile nella stessa posizione, e con le braccia comincia a muoverle come se la donna fosse ancora lì, accarezzandola e abbracciandola. Sorride. La donna lo guarda)

Ancora. Parli e agisci a vuoto. Troppo preoccupato a compiacerti per le tue parole. Se non fossi stata così giovane quando ti ho conosciuto, l’avrei capito che eri solo un egocentrico vanitoso Poeta.
(L’uomo si ferma, guarda la donna. Porta le braccia lungo il corpo e stringe i pugni)

Lasciami. Tu non puoi avermi. Non puoi. Non puoi. NON PUOI!

(L’uomo corre verso la donna e le da uno schiaffo. Lei cade. Buio. Compare un cerchio luminoso e al centro la donna, rannicchiata, col volto tumefatto)

Lasciami. Lasciami andare. Lasciami stare. Lasciami essere e lasciami prendere e farmi prendere. E cadere. Lasciami cadere. Lasciami morire, lavorare, riposare, stare, giacere, sdraiata, su un pavimento, di un bagno, a sudarmi dalle pupille la mia ennesima overdose. Lasciami colpirmi da sola al buio, prendermi a calci e insultarmi e soffrirci da sola. Lasciami urlare nel nulla. E svegliarmi domani o non farlo. Lasciami. Lasciami libera da ogni vincolo, da ogni catena o nastro colorato che mi tiene al suolo, lascia che spezzi ogni legame, che mi tolga dalle spalle ogni peso. Lasciami questo corpo. Questa prigione d’ossa e di carne rancida, battuta come un filetto dal macellaio. Buttami via dopo avermi usata. Lasciami scegliere il pane e la verdura per la mia ultima cena e la mia ultima partenza e i miei ultimi momenti di Agonia. Lasciami camminare correre urlare rimpiangere. Lascia la mia testa libera da te e da me. La mia Anima non ci vuole Non mi vuole Non ti vuole Non vuole Lascia che sia io a scegliere, quanto debba riempire la vasca, quanto restare in ammollo guardandomi i tuoi ematomi, a che altezza recidere il mio polso e se asciugarmi i capelli prima di farlo, così da essere bella almeno al mio funerale. Lasciami la possibilità di farmi un caffè, prima della mia ultima fine. La mia ultima fine. Ultima fine. Fine.


Ricordi

È come quando da bambini giocavamo
e ridevamo io e te, spensierata empatia
E c’era il sole, e la terra e due porte e una palla
Il tuo sorriso i tuoi occhi e i tuoi capelli
E poi d’un tratto per sbaglio inciampavi
Alla prima nuvola, e l’ombra su di te
E tu che piangevi, e tutto se ne andava
Non capivo che cosa avevi, e mi sentivo in colpa
Volevo rimediare e non sapevo come
Paura di peggiorare, e il baratro sul mondo
E nei tuoi occhi bagnati vedevo una foglia calpestata
E rovinavamo così un pomeriggio. D’un tratto, stupendo
Divenne un brutto ricordo, quello che poteva essere
Il più bel giorno della mia vita

Qualcosa di rotto, si può riparare
E quanto perso, poi ritrovare…
Una ferita rimarginare…
Ciò che divenne imperfetto…


Violenteticamente me – D’un fiato.

E picchiare e fare male e lasciare e violentare, mia figlia, e abusarne, e batterla con la cinghia e odiarla e sentirmi male e risorgere e volere male e scendere in fondo e toccarlo e andare più giù e giù…
Violentare mia figlia, e farle male, e poi picchiarla e picchiare il mio cane, e batterlo col bastone con la mazza, con l’odio, e disprezzarlo e sputargli addosso e poi sentirlo guaire e lasciarlo morire col sangue che gocciola dal cranio e pestarlo e dargli contro e dargli ancora e amare il suo sguardo sofferente e farlo mio e adorarlo e goderne della morte, mentre passa, e mi passa affianco, e la falce che lo stacca dalla vita…
E mordere e pestare e prendere a sberle mia moglie e detestarla e farle male, e soffocarla con le mani e stringere il suo collo, e odiare i suoi occhi iniettati di paura e angoscia che mi guardano e mi giudicano mentre stringo e scaraventarla per terra, e picchiarla sulla pancia, pestare sul suo utero per farla abortire e non volere quella bestia che ha in pancia e odiarla e detestarla e poi usarla. E usarla. E usarla.
E poi rasarle la testa mentre dorme, tagliarle i capelli a ciocche, farle cascare per terra i suoi riccioli e buttarli e rifiutarli e poi gettarli al vento di settembre, tagliarle il seno, tagliarle un seno, con una forbice, penetrarla nella carne e farla colare, e gocciolare, e perdersi…
E il mal di testa che mi causi, e l’odio che ho, e il terrore che hai che mi trasmetti e che ti do. E la paura nel picchiarti in volto, il dolore alle nocche, e la stanchezza alle braccia.
E poi stuprare me stesso, violentarmi, e godere di questo, e farmi male, e piangere dentro e ridere fuori, e poi piangere fuori e ridere dentro, e volere essere altrove e poi picchiarmi e pestarmi coi miei pensieri violenti, e odiarmi nel nulla e odiare la mia punteggiatura e la mia storia e le mie frasi inconcludenti, e il volerti staccare gli occhi con cui mi leggi. E portarmi rancore, non dormire la notte, e staccarmi la felicità di dosso, l’ansia e l’angoscia, e sentirmi forte e poi debole e sottomesso a me stesso e domarmi e farmi domare e la violenza che può tutto e poi non può niente e buttare giù tutto e vomitarlo sul foglio per poi rimangiarlo contro ogni senso ed ogni logica e lasciarmi andare e poi pestare quanto mi è più chiaro, e calpestarlo e gettarlo al vuoto e farmi divorare dall’oblio.
E scrivere per scrivere per la gioia di farlo per la violenza che ho per la storia che so e per ciò che non tornerò… per farmi ciccatrici e per dannarmi un po’… per la maledizione che ho… per quanto so… per ciò che perdo… ho…non ho
E poi confondermi.
E poi uno stimolo dal mondo esterno.
E poi stacco.