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All’osteria ti ascoltavo due tavoli più in la

La tristezza della tua voce alta.
Diventi sola a parlare così,
ci respingi.

Bisbigliamoci, costringiamoci a porgerci l’orecchio.
Stringiamoci nei sussurri, fino ad abbracciarci e
a doverci spogliare per sentirci, finché
per sentirci potremmo solo col
calore.

Ma se dico una frase, il calore del mio corpo non cambia il significato?
Non cambia qualcosa l’aria nei tuoi polmoni?
Se mi fumi un “ti amo” in faccia,
io che dovrei pensare?

Dovremmo alleggerirci, salire in alto,
fino ad avere solo aria di montagna nei polmoni,
rarefatta, e darci dei “ti amo” che volino da soli,
per l’aria calda nei nostri polmoni.

Amarsi è sollevarsi, non di tanto, con la voce stridula.


Capitolo 5 – Vernice plus

Jacopo si trova ancora una volta al buio. Il respiro affannoso rende lo spazio claustrofobico mentre piano cerca tra le coperte l’oggetto dei suoi pensieri. Nella sua testa le parole nere si accavallano e cerca un appiglio, far combaciare le sue costruzioni mentali con quelle frasi.
Sprofondate nel suo cuore preoccupazioni! State arrugginendo un cuore d’acciaio.
Se può il vento che tanto s’impegna a far sbattere gli scuri porterà queste parole al destinatario nel tempo in cui le ali di rondine portano la primavera. L’inverno del suo cuore sarebbe così portato al disgelo, svegliato dal suo letargo ritroverebbe la voglia dei germogli di scrollarsi di dosso il terriccio e arrivare a nuova vita.
Jacopo si gira e si rigira, la gamba si culla da sé e le estremità delle sue dita si ghiacciano. Il sangue è tutto nel suo petto, nel suo collo, aiuta i polmoni. Gonfi. Sgonfi. Gonfi. Sgonfi.
Come non pensare? Via, maledetti corvi, nuvole nere sulla sua fronte! Allora è vero che ogni brutto pensiero ha le sopracciglia contratte!
Jacopo s’abbraccia, come non s’abbraccia neanche un figlio, nel nero delle lettere di cui non trova un incastro. C’è un gran fracasso tra le sue costole, un suono antico quanto il primo uomo che trattenne il respiro, nel freddo di una caverna.
Si contrae l’addome come se con gli occhi della pancia, che sono i più profondi e solleciti dei tanti disponibili all’uomo, vedesse arrivare il colpo. Tenere duro, deriverà da lì, il detto? Da quella contrazione?
Le dita non possono ringraziare, o complimentarsi, o dire quanto tutto questo sia insopportabile.

State molto attenti ora, perché Jacopo ha fatto una cosa. Jacopo si è sporcato nel profondo con dei colori che non gli appartenevano. Sì, dovete proprio saperlo, ha tinteggiato buona parte della camera che tiene lì nascosta, quel luogo sconosciuto a tutti se non agli occhi dello stomaco, che certo sono reattivi e onniscenti a sufficienza. Così quando la vernice si è messa le gambe in spalla… con la volontà di chi sarebbe rimasto per sempre sia chiaro, non è mica fuggita a cuor leggero, solo che gli eventi… Dicevo, quando la vernice ha tagliato i rapporti col pennello, la stanza è rimasta metà colorata, e metà bianca.
Quindi adesso Jacopo è davanti a una scelta.
Primo: può tinteggiare tutto di bianco, e chi s’è visto, s’è visto. Ha così tante parole che potrebbe riempire superficie e volume tante volte da superare le passate consigliate per la buona tenuta del colore. Sì però… poi si vede dove c’era il colore prima perché il punto diventa più spesso, e prima o poi l’intonaco cade e si vede… Non si può fare. E poi se aveva deciso di tinteggiarlo quel bianco, ora non si torna indietro, non sarebbe… autentico!
Secondo: può cercarsi un’altra vernice e finire la stanza con quella, ce ne saranno sugli scaffali! Sì, senz’altro. Sì, però… Questa non tiene. Questa non brilla. Questa è buia. Questa è stupida. Stupida vernice!
Terzo: Ritrovare quella medesima vernice! Ok, questo è folle! Jacopo, la vernice è andata via! E non puoi dirle che è stata una gran vernice, che quando vorrà pitturare qualcosa tu ci sarai sempre, che è bravissima ad assolvere i suoi compiti di tinteggiatura per diventare una vernice plus! Eh non puoi, perché daresti fastidio a quella vernice! Meno ti vede meglio sta.
Jacopo capisci che meno ti vede meglio sta, la vernice?
Capisci che meno la cerchi e più lei riuscirà ad essere la vernice che vuole ed è destinata ad essere?
Jacopo, come vedi delle tre opzioni non hai scelta! Cioè  davvero, non hai scelta, nessuna, nessuna delle tre è una strada percorribile!
Chiudiamo la stanza?
La spalanchiamo, per chiunque?
Jacopo soffiando dalle narici un taurino e rovente “NO” è in questo istante monolitico e fortissimo, alto svariate leghe sul tetto del mondo, reggendo dolcemente la volta celeste col suo indice sinistro. Sceglie d’essere il più forte possibile, per quella Vernice.

Io so solo che Jacopo è nel buio delle sue lettere. Respira a fondo. Scoprendo le difficoltà di fare parallelismi con colori in barattoli.


Mala-nconia

Tutta la mia testa altrove, in un’astronave
Fatta di ciottoli e buio notturno, si muove a sospiri di pieni polmoni
Nell’immenso spazio vuoto, mi diranno “devi essere felice
Hai ancora da esplorare”, esplorare, esplorare, piccoli pianeti
Coi pensieri che ci orbitano pesanti, sciami di conti in sospeso,
Essere attratto da gravità resistibili,
Viviamoci il presente con la brutale bellezza della solitudine,
Viviamoci viviamoci, a distanze di anni luce,
“Devi essere produttivo,
Devi avere un tuo motivo”,
Proprio ora che sono vestito da una maglia di dolore.
Dolore,
Malinconia, ci soffoca dolcemente
Nei letti da cui non osiamo alzarci
Nelle coperte che abbracciano il nulla dei nostri corpi
Stesi o rannichiati, rigidi e freddi, con la gola annodata
Da un impegno di cui dobbiamo ricordarci.
E tu non ti rendi conto che è questo, Amico Mio?
E’ proprio questo che ha ucciso le mie Voglie,
In una primavera che sa d’autunno, “Del nostro scontento”!,
Le scale che per quanto salgano, portano sempre in basso.
Per quanto la verità sbucci, la bugia è sempre frattura.
Per quanto il dolore uccida, la rabbia che partorisce è sempre Vita.

Siamo solo dei bambini che hanno imparato a camminare dopo i loro giocattoli.


Un Punto per Me Stesso

Al caro e amato Me Stesso;
dovremmo un po’ fermarci
con tutto questo tormentarsi, non ti pare?
Le persone, queste piccole e minuscole cose
devi un po’ lasciartele scivolare addosso,
e scivolare tu stesso nell’acqua piovana
delle pioggette primaverili,
Ripristinare un po’ la nostra unità.
Perché, caro e amato, Me Stesso è di entrambi (almeno)
Ed entrambi dovremmo cooperare.
Affila la penna, battila finché è ancora calda
discorsi smussati senza filo, dicono?
A me lo scalpo, reciso a suon di rima!
Liberati, Amato Me Stesso!
Spogliati della paura, del rimorso,
del ricordo, della nostalgia!
Scatena sopra il mondo saette di versi,
Fai tremare col tuo respiro una sala gremita,
e furioso abbatti su di loro la sfrenata massa dei tuoi Pensieri!
Cibati di quei silenzi,
Quei Grandiosi Silenzi
che rotti al momento giusto fanno crollare gli imperi delle convinzioni altrui.
Riempi i polmoni e veleggia verso terre lontane, create dal tuo solo inchiostro
Inverti il finale e l’inizio dei tuoi pensieri, e poi sostituiscine il corpo,
inonda ogni tuo personaggio di cupa solitudine, guardali annientarsi,
osservarti dal basso per ricevere un goccio nero di compassione,
una cosa minuscola, Amato Me Stesso, che tu tanto vuoi, ma che solo IO
posso darti, se mi concederai di ricongiungerci. Io potrò darti, lo stesso
che tu neghi ai tuoi creati.
Un punto.


Non basta

Io sono due. Aggiungerei che Noi siamo Uno.
Saremmo.
Sei rimasta sulla pelle come l’ultimo raggio di sole estivo
Trapassando qualsiasi strato. Hai toccato.
Quando finisco qualcosa, poi posso riprendere da dov’ero prima di iniziare
Ma tu, sei stata l’Inizio. Cosa c’era prima?
Prima di riempirsi la pancia c’è stato il mangiare,
Ma quando non avevo un fuoco, una tavola
come mi nutrivo?
In due è mangiare, da soli è nutrirsi.
I tuoi occhi; ho la fortuna che le mie parole non hanno
Io li ho avuti, per me, mentre loro stanno qua
E non sapranno mai come sono, e lo vorrebbero davvero
Io lo vorrei che leggessi, io vorrei che le accompagnassi
Tu, che sei l’unica per cui abbiano un senso
Che possa capire tutto, che possa inciampare
Con me
In un filo attaccato al pavimento con lo scotch

Invece stanno qui, in fondo al pozzo.
E tu da su
Coi tuoi riccioli scuri hai fatto la notte
Col tuo sorriso hai tracciato la luna
Con le tue lentiggini hai popolato la volta
E io guardo.
E non basta. Non basta.


Inopportuno

è difficile trattenersi dallo scrivere.


Verona

Neanche l’ultima gioia stretta tra le mie fredde dita
riuscirete a strapparmi con i vostri lamenti
le vostre commiserazioni e la vostra culturetta.
Lo zampillare di paroloni e di opinioni precostituite
Troverà in queste orecchie
Un muro così solido
Che, per dio,
prosciugherà la vostra fonte di idiozie
senza che ne sia nata una sola foglia.

Non vi è vita nel cibo già masticato
e per questo Verona dovresti dolcemente
come dite voi?
Passare a miglior vita
In verità sarebbe semplicemente passare a Vita,
che nei confini cittadini questa parola non si è vista
non vi è fremito, né sguardo infuocato alcuno
passione, irradiazione, esplosione d’animo
Non vi è un dinamitardo o un bombarolo,
una scissione di atomi studenteschi che rimbombi
per Via Mazzini
qualcuno che viva di vita e di vita muoia.
“Quanti grammi?”, davvero è questa la domanda di sinistra più in voga?
Davvero a sbornie si ravviva l’aria irrespirabile?
Sì, eccome, da dietro a un computer leader di una rivolta silenziosa
Così silenziosa che è morta e non ce ne saremmo accorti se solo
non facesse così freddo.

Non basta. Non ci stiamo ponendo di cambiare il Mondo
ma di ritornare, al Mondo. E non basta, non basta porselo.
Cosa fai tu? Scambi monologhi per applausi
a rassegne che hanno per nome giochi di parole
per assordarci col tuo ego?
O apri un’associazione per il gioco intelligente,
perché te e i tuoi amici volete muovere pedine senza sentirvi in colpa
di non star facendo altro, che appunto, muover pedine?
Oppure certo, promuovi l’università, il tuo dipartimento
l’ateneo! Crea contatti con tutti, conosci più gente che puoi
vai in Erasmus, scappa dall’eco dell’abisso che risuona nel tuo cranio!
C’è chi con Mille amici ha fatto l’Italia, perché non allora avere diecimila conoscenti?
Magari ci facciamo una pagina Facebook.

E tu che stai qua? A scrivere? Che fai? Che cambi?
Appunto. Io sto qua.
Scrivo.
Faccio.
Cambio.


Il guardiano notturno

Ciao sono io,
posso entrare?

Di notte faccio il guardiano, e per il resto dormo. Io vivo due notti ogni giorno.
L’eco dei miei passi all’ombra delle enorme magazzino, mi risuona in testa
nel sonno.
Quando vado a letto tu ti svegli.
Ti cerco.
Non potrei fare la guardia a te? Starti a guardare, tutta la notte
dormire.
Osservare la tua mano quando si contrae leggermente, e afferri qualcosa in un mondo profondo.
Appoggiarti una mano sulla schiena e sentire il tuo respiro.
Mi metterei in divisa, a letto. Farei le parole crociate con la torcia stretta in bocca.
Un lavoro così non te lo scrolli di dosso. Non ci torni più a dormire la notte.
Non bene.

Iniziare non era stato facile.
Nelle prime tre settimane la cosa più difficile era restare sveglio.
Poi ti ho conosciuto. I sabati sera a vagare insonne per la città.
Dopo, la cosa più difficile era dormire, sapendo che tu eri sveglia.
Per te dev’essere stato l’odore della mia cena durante la colazione.

Ma a volte, non si potrebbe pensare:
tutto ciò che mi serve
è sapere quando la tua mano si schiuderà?


Gira

Ti prego, lasciami perdere
Se per strada, in ufficio, all’università, al semaforo, incrociamo lo sguardo
E io per un attimo sento davvero di avere un contatto

Non c’è niente di vero, lo so bene, lo sappiamo entrambi
Che non c’è più niente che si possa ancora fare per riconoscerci tra simili
Lasciami perdere.
Amica mia, lasciami perdere.
Se mi ricordo tutto
Tutta la sincerità sprecata
Tutti i fondi di discorsi che ci siamo scolati senza venirne a capo
Le urla, oltre le mura della casa e quelle del suono,
Oltre la violenza, per stilettare la milza e piegarci, fino a sdraiarci per terra
Fino a schiumare bile

Sale un’ira che mi rende l’aria irrespirabile
Mi bruciano i polmoni e sento tuonarmi il petto
Di una tristezza che scende nel profondo di abissi
Siamo spietati con tutto ciò che è nostro
Servirebbe che mi restituissi quello che ho perso
Tutta l’autostima, il credersi capaci di qualcosa,
Non l’essere, ma il credersi, la capacità di aiutarsi da solo
E non solo girare, e girare, e girare, e girare
Senza andare da nessuna parte.

Che messaggio diamo,
Cosa scriviamo, perché non dovrei più farlo
cosa ci resta, amica mia,
Ora più che mai
Ora che mi sei più intima perché sei rimasta un’idea
L’ombra del sole, e non se ne va
Che resta in questa testa.
E gira, gira, GIRA!


Serenata

Gentil creatura, voi restate, la mia fede
Ed il mio cuor, s’è fatto già, la vostra chiesa
Che possa, la mia preghiera, portarvi in viso
Un sorriso, alla finestra, in cui vi chiamo

Se sporgerete, la vostra mano, dal davanzale
Ci poserò, questa mia voce, come promessa

Se uscirete, i vostri occhi, dalla tenda
C’asciugherò, quella lacrima, che vi addolora

Rit.:
In questo giorno, io v’ho pensata
E tra le dita m’è uscita, ‘sta serenata
Che se v’ha offesa, la porto via con me

In questo giorno, io v’ho pensata
E tra le dita m’è uscita, ‘sta serenata
Che se nel cuore, v’è penetrata, ce la lascio per te

Dolce fior, nella mia vita, fatta di rovi
Voi sbocciate, in mezzo al freddo, delle mie notti
Dolce fior m’imbarazza sai, la primavera
Che regalate ai rami secchi, dei miei occhi

Se avrà la mia preghiera, un bel sorriso
Renderete molto felice, il mio respiro

Se avrà la mia  preghiera, le vostre dita
Renderete molto felice, la mia vita

Rit.:
In questo giorno, io v’ho pensata
E tra le dita m’è uscita, ‘sta serenata
Che se v’ha offesa, la porto via con me

In questo giorno, io v’ho pensata
E tra le dita m’è uscita, ‘sta serenata
Che se nel cuore, v’è penetrata, ce la lascio per te


1° Maggio – In democrazia.

Interveranno tutti, chiunque parlerà
uno sopra l’altro, in un’accozzaglia di parole
che suonerà come la frizione di pietre lapidarie.

Chi avrà la bocca, sarà abituato a non avere orecchie,
chi avrà diritto, sarà abituato a esigere come se non ne avesse
chi non avrà diritto, sarà abituato a non disturbare.

Starò in disparte.
Quando il Sindacato, il Pensionato,
il Politico, lo Studente, il Manager
Parleranno del lavoro, come se lo conoscessero,
sarò abituato a non disturbare.


Capitolo 5 – Cortomaltese

Jacopo vede che te ne vai sbattendo la portiera. Uno schiaffo di spostamento d’aria.
Jacopo è sempre al palo, sempre fermo, accarezza il suo gatto, guarda oltre le finestre, quelle del suo monitor, e conta.
Jacopo si prende un altro no, se lo mette in borsa, e cammina con i sassi nelle scarpe che vorrebbe tirare, tirarseli addosso, rimanerci sotto la valanga dei suoi sassi nelle scarpe.
Jacopo fuma, si stappa una bottiglia, usa la pornografia e i videogame, si spegne.
Jacopo ti guarda ancora negli occhi, non lo fa con nessuno ma con te sì, dannazione, ti guarda come se dovesse capire misurando il tempo che ci mette il suo sguardo ad arrivare al cuore quanto profonda sei. Ti fa luce dentro, si porta in te, ti fa ancora l’Amore come una volta, quando dall’altra parte del tavolo giocava a prendere tutte le tue occhiate e a farsi correre i brividi sulla schiena coi tuoi sorrisi. Spudoratamente in mezzo alla gente. A mezz’aria. Ma tu non ti ricordi queste parole.
Jacopo brucia di banalità ogni giorno, di routine ogni secondo. Tossisce come tutti. Ha la voce roca, si starnutisce addosso. Spacca il volante a pugni. Come tutti.
Jacopo è sé stesso, lo è sempre, a costi di farti male e di ucciderti. Ce lo deve. E tu?
Jacopo vede le tue bugie e vede oltre, e vede. Vede. Vede. Vede. Vede. Fissa il vuoto e vede tutto. Vede la stanza, le pareti rosse, un letto, un hotel, e gli manca la forza di descriversi il resto anche se l’ha già fatto tante volte.
Jacopo ogni giorno discrimina la sua diversità. Quella di ieri.
Jacopo perde sangue dal naso e dagli occhi, e a volte anche quando viene. No, non succede e non vorrebbe succedesse, ma a volte pensa proprio che quello che gli monta dentro deve essere sangue. Infondo è lì che incanala le sue paure, ansie e frustrazioni.
Jacopo fa un altro passo. Ogni numero è un passo lo capisci?
Ci metti una parola davanti a un numero, sempre la stessa… e tutti si aspettano di andare avanti. Ma stiamo andando indietro, sempre di più, ogni parola ci guida alle origini. E srotolato fino al bandolo, la matassa seguirà la sua fine naturale.
Jacopo è quasi arrivato. Si ferma per un po’. Respira aria buona dal filtrino.

L’ultima tappa…. l’ultima Thule…. L’Arcadia… La meta. La metà.

Guardo l’Oceano erculeo. L’ennesima fatica. L’ultima.

Pronta per il Mare aperto Sorella? Pronta per l’America, su una rotta diversa dalla mia? Che le mie tempeste non vedano le tue.
E le tue non vedano le mie.
E io non affondi prima di te e tu prima di me.
Che si possa scoprire da soli insieme.

Jacopo. Cortomaltese.


Taxi a Roma alle 4 di mattina

Dove sei, cosa fai
Quanto è grande il tuo letto?
Chi sei, come mai
Vai a dormire col rossetto?

Non lo so. Sei salita sul mio taxi, e ho solo potuto guardarti nello specchietto.
E adesso che scendi, mi dai la mancia con lo sguardo coperto dal cappello,
Sarai stata un riflesso?
Tu che ti allontani,
In una Roma che chiama i tuoi vent’anni
Che mi hai sfiorato le mani nel darmi i tuoi spiccioli
Quanto piccoli saranno i tuoi occhi rispetto a quel lampione?
Quante persone t’hanno visto alla stazione coi tuoi riccioli?
Io resto sul sedile anteriore, e porto via le vertigini del mio Cuore
Spero anche le tue, come la lacrima che c’hai sulle lentiggini

Amore mio, non t’ho mai incontrata
Ma se fosse, che ti ubriacavi d’un taxista?
Torno a casa, che c’ho moglie
Debiti, e tante vergogne.

Anche se te l’avrei chiesto il Cuore
Per sentirmi dire “Tié materialista
Bevitelo. Come un Peccatore, il suo liquore”
Ah, se vorrei essere un Peccatore. Ahia.

Dove sei, cosa fai
Un giro nel mio retrovisore?
Chi sei, come mai
Ti vedo sul sedile posteriore?


Alla Tua Ricerca.

Un ragazzo dell’uomo che diventerà
Immerso nella nebbia del mattino
Si dirige al tavolino con serietà
Riponendo tra le sue dita un’aspettativa

Si concretizza in una matita tra le dita
E disegnando occhi grandi come il mare
Lentiggini e un’Anima di graffite
Si dona una donna da amare

Si fissarono a lungo e si riconobbero come se in un’altra vita fossero stati chiave e serratura.
Poi, l’Uomo del ragazzo che fu, mise l’occhio nella macchina fotografica e puntandolo sul ponte, vide un disegno colorato che ricambiava lo sguardo attraverso un altro obbiettivo. Scattarono il loro primo incontro, e lo appesero al soffitto della camera da letto, ricavato in una soffitta di un palazzo del centro.
Un sabato mattina qualsiasi, il disegnò sparì dietro una porta che sbatteva.

Quello che restò, fu l’odore della carta sul cuscino.


Prologo – Il messaggio

(Entrano Malopasso zoppicante e Gyl alticcio)
Malopasso: Forza Gyl, dovevamo essere al castello già al levare, se arriviamo col cielo rosso sarà lo stesso colore delle nostre guance per i ceffoni che prenderemo!
Gyl: Speriamoci allora mio caro Malopasso, quanto meno nasconderà il motivo del nostro ritardo, ma l’importante è che non ci tagli le mani come al vecchio Faub, perché bere tenendo il bicchiere in bocca è assai scomodo!
M: E allora affretta il passo!
G: La fai facile tu…
M: Ma se sono zoppo!
G: Appunto! Quella tua diavolo di gamba è allenata anche per l’altra. Scommetto che potresti saltare così forte da lasciare due dita di impronta nel terreno.
M: Stai sostenendo che gli zoppi vanno più veloci di chi ha due gambe buone?
G: Dico solo che se le mie gambe fossero come la tua riuscirei a stare al tuo passo, ma essendo diverse vado a un passo diverso
M: Infatti dovresti essere più veloce.
G: Ma non vedi come tremano le mie di gambe? Ad aiutarsi l’un l’altra si sono viziate.
M: Certo, hai bevuto per tre ieri e con qualche parte di te dovevi pur spartire.
G: Ah il vino è come un padrone sadico: prima di accarezza e di fa sentire suo beniamino, e poi ti bastona senza darti un motivo.
M: Il messaggio ce l’hai ancora o ti sei bevuto anche quello?
G: Me lo sarei bevuto volentieri se l’oste l’avesse accettato come pagamento, ma i messaggi reali sono una merce che pochi vogliono maneggiare senza usare le mani d’altri.
M: Hai cercato di barattare il messaggio per denaro? Se Dio c’era, così ci siamo giocati la Matta. Anche lui avrà finito la pazienza.
G: Ma non preoccuparti mio caro amico!  Ho sempre un asso nella manica…
M: Ti sarai venduto anche quello.
G:  … già, con tutta la manica.
M: E allora ringrazia d’essere ancora vestito. Su, dammi qua il messaggio. Lo terrò io.
G: Sì è meglio, così posso aiutare le mie povere gambe… a sedersi! (Si siede)
M: Oh Gyl, non è il momento per riposarsi se non vuoi che quel tremore diventi freddo rigor mortis!
G: Un minuto! Se dovremo arrivare tardi ci arriveremo comunque!
M: Questo senz’altro ma cercavo di togliere alla colpa un po’ di disonore, ma mi pare di capire che ormai abbiamo concesso set, partita e campionato alla vergogna.
G: Ehy amico Malopasso, vuoi sapere una fatto proprio strano?
M: I fatti strani li raccontano i sobri, gli ubriachi dicono solo assurdità. E se tu fossi sobrio sarebbe già di per sé un affare strano.
G: E allora senti questa fratello di bevute. Lo vedi quest’albero?
M: Una quercia.
G: Bé una quercia senz’altro demoniaca.
M: Ecco le assurdità. E perché mai?
G: Sai bene che il due è il numero del peccato no? Della divisione, del corruttibile…
M: Sì sì, sermoni da prete.
G: Bé le foglie di quest’albero puoi accoppiarle tra loro, e non te ne rimarrà fuori neanche una.
M: E tu cosa ne sai?
G: Lo so perché le ho contate.
M: Ma se siamo qui da un minuto!
G: Non devi sentirti in imbarazzo. E ti dirò di più mio caro Malopasso, le coppie possono a loro volta essere messe in coppie! Quest’albero è assolutamente peccaminoso.
M: Sei ancora ubriaco, assurdo. Questo è qua dal battito d’ali di una tortora, e dice di aver già contato oltre cento volte le dita della sua mano! Ma guarda neanche si distinguono le foglie, neanche se le contassi col dito riusciresti a seguire il conteggio! Tu spari panzane!
G: Basta, zoppo! Vuoi darmi del bugiardo, e io do a te del calunniatore. Ti sfido a contare e verificare se non dico il vero! Ma se non lo fai, ricacciati la lingua in bocca e tieni le tue accuse per chi ne è avvezzo, perché Dio mi fulmini se mai qualcuno ha avuto ragione a dare del bugiardo a Gyl Lannet!
(Silenzio)
G: Allora?
M: Visto che sei così ostinato nel raccontare le tue menzogne, è ora che qualcuno ti dia una bella lezione. Staccherò e conterò ogni singola foglia, e quando non torneranno i conti ti farò offrire da bere dieci giri a tutto il villaggio per lavare la tua onta.
G: E tu alla fine della conta ne offrirai a me cento, e sarò contento così, senza macchie e senza lavaggi.
M:Bene!
(Malopasso si gira e comincia a staccare foglia dopo foglia.  Gyl senza farsi vedere, stacca tre foglie e se le mette in tasca)
G: Aspetterò pazientemente, e controllerò che tu faccia tutti i conti giusti.
(Gyl si cala sugli occhi il cappello e comincia a dormire)
(Buio)
….
….
(Quando la scena riprende, Malopasso ormai è visibilmente sfinito).
M: FINITO! Maledetto bugiardo!
G: Adesso vediamo.
M: Le ho staccate tutte, e tutte le foglie sono in una coppia.
G: E fino qui ci siamo.
M: Già, se non fosse che hai voluto strafare, maledetto ubriacone, ed ecco che formando le doppie coppie, me ne avanza una!
G: Hai una coppia in più dici?
M: O una in meno, che dir si voglia!
(Gyl lascia cadere dietro di se due foglie)
G: Mmm… (passeggia avanti e indietro)
M: Come vedi o messo tutte le foglie in fila ordinate e raggruppate. Trova l’errore se c’è, altrimenti, scuci il borsello maledetto ubriacone!
G: No infatti, i conti mi sembrano fatti bene. Non è che te ne sei persa qualcuna?
M: Ecco, ora tira fuori la scusa del vento per provare a rimediare alle sue panzane! Ma se vuoi salvarti dalla tua meschinità dovrai fare di meglio che inventarti una scusa qualsiasi!
G: E quelle due lì perché non sono in ordine allora?
(Silenzio. Malopasso si avvicina, le prende in mano e le guarda. Le mette nel gruppo assieme alle altre)
G: Ecco adesso ci siamo!
M: Io…. Io… Quelle due… ma…
G: Su su dai. E adesso affrettiamoci, hai visto che il cielo è rosso? Questa sera avremo entrambi le guance rosse se non ci sbrighiamo, e io sarò anche piuttosto felice di averle!
M: Santi numi! Il messaggio! Presto Gyl! Presto!
(Malopasso esce zoppicando)
G: Incredibile vero? Farebbero notte per darti del bugiardo, e quando stanno dall’altra parte del dito diventa improvvisamente tardi!
(Gyl esce)


Diario di Linus

(Voce fuori campo. Uomo al centro della scena che scrive)
Diario di Linus: Anche oggi la guerra continua. Il telegiornale delle otto ha scaricato il solito carretto di corpi mutilati, arti martoriati e coscienza sporca sul piccolo schermo. Ogni mattina ci tuona nelle orecchie la campagna di sensibilizzazione che ha ormai assunto il ruolo di anestesia. La mia mente callosa non prova più niente per queste schifezze, e la disumanità della mia indifferenza mi impone di guardare altrove da me.
Sta mattina ho trovato un uomo senza un braccio sul tappetto fuori dalla mia porta. La cosa che più mi dava fastidio era la sua asimmetria. Sì, sono diventato mostruoso, ma d’altronde il tempo dell’ipocrisia è finito quando è stato premuto il primo grilletto. E poi quel braccio forse l’ha perso per causa mia, e mi è passato davanti in qualche speciale alla TV sui profughi. Quindi preferisco chiudere la porta e aspettare che se ne vada. Guardare altrove.

Monica: Mmm… Linus, sei già sveglio?

(Voce fuori campo): Ogni giorno mi chiedo come in un tale inferno Monica possa trovare un posto. La sua bellezza è sempre più cruda e indifferente di quanto non sia io. Forse perché ha sconfitto la morte tanto tempo fa, quando una bomba cadde esattamente sopra la sua casa e lei ne uscì praticamente illesa. No, dannazione, lei è oltre tutto questo, un perfetto frammento di diamante disperatamente indistruttibile. La sua vera disperazione.

Linus: Sei riuscita a dormire?
M: Abbastanza…

(VFC): Questa notte ha dormito eccome. Io è da così tanto tempo che non chiudo occhio la notte, che non ricordo di aver mai sognato. Monica la notte si addormenta in un russare che sa di lentiggini.

Linus: Spero tu stia bene perché hanno abbattuto l’ospedale sta notte. Ora per i raffreddori bisognerà fare duecento kilometri.
M: Sapevo che dovevo andare ieri a prendere le aspirine.
(Monica prende una bottiglia dal banco)
L: Il Bourbon secco alle otto di mattina, Monica?
M: Perché è troppo presto o troppo tardi?
L: Berlo senza ghiaccio è un delitto.
M: Lo è anche annacquarlo con inutili questioni come le tue.
L: Bere alcolici senza sentirsi in colpa ne dimezza il sapore.
M: Berli parlando li fa andare di traverso.
L: Se prima di bere parli così tanto, avrai la gola secca a ogni bicchiere.
M: Meglio rimediare allora. (Beve un bicchiere) Hai ragione, ho ancora la gola secca (Versa un altro bicchiere)
L: Sarà meglio aggiungere alla lista il Whiskey.
M: Mi stai dando dell’alcolizzata?
L: Solo se ti offende. Oggi mi sembri un po’ irascibile.
M: E tu un po’ troppo tu.
L: Qualcosa non va?
(Silenzio)
L: Mi dispiace, so che in quell’ospedale c’era tua madre.
M: Linus, perché?
L: Se quel perché è il solito perché, allora voglio una bottiglia anche io, perché se litighiamo da ubriachi sarà più facile perdonarci domani.
M: Perché c’è questa guerra?
L: Io non ho la mia bottiglia.
M: Non è il solito perché.
L: Preventivamente passami la bottiglia.
M: Rispondi.
L: Per lo stesso motivo per cui esistono i tuoi occhi. Sai perché esistono i tuoi occhi?
M: Perché io possa vedere.
L: Quello è il tuo motivo. Tu hai chiesto il mio motivo. E il mio motivo dell’esistenza dei tuoi occhi è perché io li possa ammirare ogni giorno.
M: Ammiri la guerra?
L: Quando annaspi nel fango, nella morte e nella paura per dieci anni, l’unico modo che hai per sopravvivere è capire dov’è il bello.
M: Non c’è niente di bello nella guerra.
L: Ovunque c’è bellezza. Non vedi la bellezza di un uomo che ogni mattina si alza dal letto e si trova bere alcolici con un angelo come te?
M: No, non trovo niente di bello nella devastazione fuori da questa finestra.
L: Allora devi guardare dall’altro lato. Anche fuori c’è la bellezza, ma è poca, e negli occhi di chi guarda. In tempo di pace tutto è bello, quindi niente lo è. Con la guerra la bellezza… risalta di più.
M: Tu non ne sai proprio niente della guerra.
L: Hai ragione, ne so così poco che posso parlarne col dovuto distacco.
M: E imbarazzante ignoranza.
L: L’unico imbarazzo che ho, è nei tuoi shorts.
M: Poi mi chiedi di vedere la bellezza in questa stanza…
L: Se mi fissi negli occhi forse riesci a vederti.
M: Sento cielo Linus, che sdolcinato.
L: Scusami, è che io non ho ancora avuto la mia bottiglia.
(Monica gli mette una bottiglia sul tavolo)
M: Perché non la fai finire questa guerra?
L: Eccoci qua.
(Linus si versa un bicchiere)
M: Ti costa tanto mettere da parte la tua indifferenza?
L: Mi chiedi di separarmi da un dono così raro?
M: Ti piace non sentire niente? Fare il morto a pelo d’acqua?
L: A te piace essere Monica? Certe cose di me non posso sceglierle.
M: Tu non vuoi scegliere.
L: Evidentemente scegliere è una scelta che non ho.
M: Sei pesantissimo.
L: E se tu avessi uno stomaco forte come la tua lingua potrei evitare di preoccuparmi di chi dovrà pulire il bagno tra mezz’ora se continui a bere a questo ritmo.
M: Dovresti preoccuparti di più delle tua guancia destra.
L: Perc..
(Monica gli da uno schiaffo)
L: Wow….
M: Perché non la fai finire?
(Linus beve con calma)
L: Perché io sono l’ago della bilancia. Quello che fa la differenza. Sono il voto che crea la maggioranza, la parola in più che convince la ragazza a tornare indietro, quell’occasione che se la cogli ti cambia la vita. E tu hai idea di cosa comporti esserlo? Io non ho mai voluto esserlo. E non avendo scelto questa situazione, non vedo perché ora io dovrei scegliere.
M: Non scegliendo hai fatto una scelta.
L: Monica, questa è retorica molto bassa, e la retorica annoia lo spettatore.
M: Tu ne stai facendo da almeno venti battute.
L: Se questa guerra finisse, la gente tornerebbe in strada. Sorriderebbe. Sarebbe di nuovo bella. E io dovrei vedere il tuo fiore dibattersi in un prato pieno di migliaia, milioni di simili. Così invece nel caldo e arido deserto, sei bella e indistinguibile. Se la guerra finisse, te ne andresti. E mi spieghi dove poggerei le mie mani la notte, senza i tuoi fianchi? E i miei occhi dove troverebbero compagnia se non nella coppia dei tuoi seni?
(Monica da uno schiaffo a Linus)
L:… E cosa butterei nei miei polmoni senza l’ossigeno dei tuoi capelli? E come mi disseterei la mattina senza la brina sui tuoi petali?
(Un altro schiaffo)
L:… E chi sopporterebbe il mio Amore, chi porterebbe il mio Affetto al suo petto?
(Schiaffo)
L:… E il mio Odio ogni volta che guardi altrove.
(Schiaffo)
L:… E come farei a mangiare  (Schiaffo) bere e dormire (Schiaffo) senza tu che mi dici quanto (Schiaffo) ti faccio (Schiaffo, schiaffo) irrimediabilmente (Schiaffo, schiaffo, schiaffo) SCHIFO??
(Monica tira un urlo isterico ed esce dalla stanza)
(Linus guarda il soffitto per un paio di minuti, poi si ricompone e torna a scrivere)

(VFC): Ha le mani morbidissime, delicate. Due rose che a ogni schiaffo sì fanno più male di chi lo riceve.
Maledizione a te, Monica, che ieri non sei andata a prendere le aspirine.


Sei un Maestro

Sei calmo.
Conosci la rabbia, e sai evitarla.
Conosci la gelosia, e sai respingerla.
Conosci l’invidia, e sai distaccartene.
Sei un Maestro.

Senti la paura, ma sei coraggioso.
Hai tentazioni, ma sei virtuoso.
Sbagli, ma sai perdonarti.
Sei un Maestro.

Le tue parole sono semplici
Rifuggi l’inganno
Ti svuoti e ti riempi.
La tua ingordigia è nel sapere.

Conosci il senso del tempo.
Godi nei frutti del suo uso.
Provi piacere nel dare piacere.
Sei un Maestro.

Conosci i tuoi limiti e sai superarli.
Conosci i tuoi difetti e sai migliorarli.
Conosci i tuoi pregiudizi, e sai smentirli.
Conosci te stesso. Sei un Maestro.


Capitolo 4 – Quel momento lì

Jacopo si trovò consapevole dell’estrema forza di volontà aggiuntiva che d’un tratto gli veniva chiesta. Si sentì meno vuoto.
Sentiva quel momento in cui gli impegni gli franavano addosso come un autentico momento di vita in cui riusciva a capire la sua carenza: il Motivo Per. In tutte le altre fasi della giornata passava solo da una scrivania ad un’altra, e il suo tempo libero lo dedicava a svuotarsi. Il suo rituale collaudato, la sua autoimposizione, il demone lo portava costantemente in un vuoto astrale, privo d’aria, in cui soffocando doveva disperatamente trovare l’uscita nel suo baratro personale. Passare da un vuoto ad un’altro.
Era una passeggiata quotidiana, verso un burrone inevitabile in cui non era più una scelta buttarsi. Ci cascava ogni volta, inciampava e nella sua Disperazione dei Tre Minuti disintegrava tutto ciò in cui credeva. Duale nel suo corpo e nella sua mente. Cavaliere integro, e lurido Furfante. Nessuno prevaleva, ma a lui sembrava che le macchie avessero sempre la meglio sul bianco. Poteva avere abiti candidi lunghi venti metri, e trovando comunque una macchia piccolissima non riusciva a non sentirsi sporco. Si lavava in continuazione anche tre o quattro volte al giorno. Doccia su doccia a ogni Disperazione dei Tre Minuti. Voleva strapparsi la pelle con l’acqua bollente, raschiarsi via e strappare il vestito in brandelli così minuscoli che quella maledetta macchia sarebbe stata solo un puntino insignificante e irricostruibile, indecifrabile anche alla sua memoria.
Ma quando Jacopo si sentiva oberato e incapace, allora tirava fuori il suo meglio. Non aveva i Tre Minuti, non poteva.
Jacopo riuscì ad avere un po’ di pazienza e calmò la sua urgenza di correre freneticamente per battere sé stesso, si perdonò.
Non sarebbe durato. Jacopo sarebbe caduto ancora in quel pozzo senza fondo così stretto che lo faceva scendere ora dopo ora con una lentezza desolante, un’angosciosa e opprimente discesa passata a scalciare fino ai Tre Minuti in cui sembrava allargare di forza le pareti precipitando indefinitivamente, a una velocità elettrica per Tre lunghissimi minuti per cascare perfetto su una sedia in una stanza poco luminosa col suo monitor, e di nuovo irrimediabilmente sporco. Solo, e quindi unico colpevole. Doveva lavarsi e grattasi, asciugarsi e dimenticare ficcandosi dentro qualcosa a costi di mangiare tutto il cibo in casa.
A volte però i Tre Minuti di Disperazione arrivavano quando era fuori, magari al lavoro o per strada, e percepiva gli occhi di tutti addosso col peso di un cappotto in Estate. Tutti sapevano di lui anche se non lo guardavano e non c’erano al suo Rituale, e poi lo compiva.
.
.
Compiuto.
.
ed era sicuro di avere un marchio addosso, Quella macchia che tutti potevano vedere e bisognava camminare veloci, più veloci, guardarsi, schivare le occhiate non fatte, le frasi non dette, non ascoltare cioè, camminare, veloce, rifugiarsi a un tavolo, ordinare un caffè, per vincere l’imbarazzo di stare solo al tavolo, e fumarsi una sigaretta perché tutti lo avrebbero notato se stava a far niente davanti a un bar, e così tutti avrebbero pensato che aspettasse qualcuno, e poi quando finiva farsene un’altra, nel panico di non sapere che cazzo fare, e non ricordarsi perché fosse lì, e camminare ancora, e sentirsi sporco, proprio lì, e volersi scorticare e non potere perché in pubblico non è carino levarsi la pelle, e non potersi lavare come vorrebbe, e volersi tuffare nel fiume, e scuotere la testa, pensando a cos’era, e aver solo voglia di tornare indietro, non comporre quel numero, e prendere quel numero e cancellarlo, e bloccarlo, per cercarne un’altro la prossima volta e ricominciare, o ricordarsi lo stesso e riprovare, e sporcarsi ancora, e ancora, e Ancora, e ANcora, E ANCOra E ANCORA E ANCORA E ANCORA E ANCORA E ANCORA E ANCORA…

Ansimare.

Ecco, in quel momento lì, tuto questo non c’era. E anche se ansimava si sentiva bene, perché era un ansimare pulito. Puro. Sano. Vitale.
“Per oggi basta così”.


Prologo

Mia Gentile Amica,
vi scrivo questa missiva con la stessa fretta con cui abbandonerò questa locanda. Il suo Cavaliere si è ritrovato d’improvviso senza corte, e ha dovuto trovare un riparo di ventura sul primo sentiero fuori dal maniero. Lungo sarebbe spiegarvi gli accadimenti che mi hanno portato ad allontanarmi dal mio precedente impiego, per cui rimanderò la spiegazione ad un momento più fortunato.
Vi scrivo per farvi sapere che sto bene. Non vi preoccupate per me. Lo spavento per il vuoto che ho trovato oltre le mura non è stato una sorpresa e mi aiuterà a trovare il coraggio di rimettermi in viaggio oltre i confini dei miei occhi. Voi, dall’alto del vostro palazzo di ossidiana certo vedete più lontano di quanto il mio piede si sia mai spinto, ma vi assicuro che certo non vi arriva l’odore della disperazione della gente da cui sono circondato. Una disperazione inconsapevole e negata a sé stessi. Una peste che non si decide di accettare. Una fame che si è repressa nella peggiore delle anoressie.
Mia Gentile Amica, pregherò per evitare il contagio, affinché il vostro affetto e quello della mia precedente Signora che ancora mi promette la sua benedizione possano fare da scudo al mio Spirito.
Ho pensato bene di viaggiare cauto, cambiando intanto il mio aspetto. Nessuno direbbe che io sia o sia stato un Cavaliere, né che io abbia mai giostrato per qualche regnante. Le precauzioni non sono mai troppe in terra Nemica, finché non mi ritroverò presso gli amici di un tempo.
Chiudo qui il mio messaggio. Vi auguro tutto il bene che il Mondo possa darvi, perché se io in questo momento ne sono in difetto, qualcuno deve esserne in avanzo.
Cordialmente vostro.
Sir


Per. Me.

Ditemi quindi cosa dovrei fare.
Adattarmi all’etichetta?
O al contrario non volerne
E rimanere nel non-stabilito?
Non sono di queste scuole.
Ho la pretesa di scrivermela,
Appiccicarmela e staccarmela io.
Non si dica “Labrusco” all’Amarone, o non lo si spacci per tale,
alle sue spalle, con l’infamia di volerne abbassare il prezzo
O il bevitore si troverebbe certo una sorpresa nel digesto.

Banchettate pure nelle città d’Arte, che diventino Musei dell’Omicidio di questa.
Nella vostra pantomimica sregolatezza e nelle vostre gare di stranezze
Santa Croce urla, dalle tombe si lamenta chi esiliato fu davvero
da quanto amava, e l’Amore lo imponeva alla sua penna.
Si ha tempo di parlarne solo se a viverlo non si può.
Ma a me non risulta che ne Papa né Imperatore abbiano emanato bolle o diktat
di cacciata verso nessuno di voi, né di recente né in altro tempo, miei cari spero mai sodali.
Parrebbe il vostro cancro non sia altro che ipocondria mal gestita,
esibizionismo, noia o qualsiasi altra cosa al di fuori della vera, seria, malattia di
sentire e vedere.

La Grandezza non ha da essere stabilita a un tavolo piramidale
ma ha da esistere.

E se dovessi malauguratamente aver usato un parlare troppo rococò
Allora segue una sintesi.

Vaffanculo.


Il mio diaframma

La morte è perdere l’avere
Come causa del non essere.
Questa idea nasce dall’astratto dei suoi discorsi
Perché se un’emozione, una
poteva ancora esserci, praticamente intendo
In senso concreto, c’era perché esisteva
batteva, si dimenava, scoppiando nel suo cuore
e negli arti
o anche solo flebilmente si manifestava
in un brivido sulla schiena
facendole leggermente traballare l’anulare
dall’eccitazione
bé l’ha persa, perché lei… le sue parole
sanno di morto.
Pontifica sul bello e cattivo tempo,
che tanto a un bancone
si può parlare del mattone
con la leggerezza della piuma,
con la leggerezza di chi ritiene morto
qualsiasi cosa al di fuori di sé medesimo,
perché vuole capire tutto
ma Sentire, solo sé medesimo.
Per lei è infantile intuire il mondo coi sensi
cinque, più mille di cui non si parla. Percepire.
Sì, meglio spiegare, ragionare, pensare
trovare il nesso, cavillare sul pelo nell’uovo
Ma lo capisce che NON PUO’

non può essere “Nell’uovo” se l’uovo è chiuso.

Lei, ha da stare bene attento.
Per sé stesso. Col suo archetto
Perché tutti la devono sentire
A costi di far perder di colore la sua voce.
La morte era già evidente in come disegnava
le sue parole, ora lo è anche
per come le colora.

I vostri archetti.
Sarà sempre guerra.
Tra i Vostri, archetti.
E il mio diaframma.


Interessante…!

Vorrei raccontarvi qualcosa di tremendamente interessante, ma non ho per voi nelle mie tasche niente che brilli abbastanza da lasciar tutti soddisfatti, me compreso.
“Interessante”.
Questa parola mi perseguita. Questa ossessione che mi si è appiccicata addosso e che blocca ogni slancio.
E’ una delle parole più terribili che conosco. Un aggettivo che si avvinghia, e come l’edera ti soffoca dal basso all’alto. Una di quelle parole che ti mettono alla prova.
Penso: la cosa meno interessante che conosco è una casa vuota. Niente animali, niente persone, mobili, lampade, giacche appese in entrata (le giacche potrebbero raccontare un sacco di cose interessanti, con le loro toppe). Qualcuno potrebbe cercare di capire perché quella casa è così vuota, che storia c’è dietro. Vi risponderei che non ne ha. Non c’è sempre “qualcosa” dietro. Non c’è sempre un tesoro in cui imbattersi, con cui appagare la propria sete da avventurieri del Terzo Millenio. Le stanze sono così piccole che nemmeno il suono rimbomba ripresentandosi come eco. Tutto ciò che passa dentro, passa. E basta.
Queste case esistono e a qualcuno creano un inquietudine fottuta: niente da fare, da pulire, da sistemare. Puoi solo passare, restare, andare. Non ci sono motivi sulle pareti, che potrebbero portare gli ospiti a distrarsi contando i fiori o cercando regolarità del disegno, simmetrie sfalsate da un tappezziere alla buona. Un piccolo appartamento di stanze bianche senza storia.
Non è interessante.
E non c’è niente di più pacifico, calmo, sereno di quel maledetto vuoto. Non ha pretese o bisogni. Se cerchi “Interessante”, trovi “Noia”.
Non ci vivrebbe bene nessuno, eppure direi che sono l’unico modo per essere felici, le piccole case vuote di stanze bianche.

Per dirvi qualcosa di strabiliante mi basterebbe essere un cavaliere sul suo Ronzinante, senza macchia ma con ombre. Chi non ha ombre, nel suo passato?
In realtà, molti non ne hanno. Ce le inventiamo. Per essere… appunto, “Interessanti”.

E’ una vita che cerco le mie ombre. Avrei qualcosa da raccontarvi, su cui costruire frasi fraintendibili e oscure, facendovi incespicare in indizi qua e la, in parole e metafore interpretabili in modi così individuali che a confrontarvi tra di voi scoprireste di aver letto frasi diversi, di altri scrittori magari.
Io non ne ho.
E le macchie, cerchiamo disperatamente di allontanarci dalle macchie buttandoci in lavatrice, sconquassandoci di menzogne e asciugandoci con le lacrime (un pianto, se ben interpretato, asciuga qualsiasi dolore e peccato).
Oppure ci macchiamo così tanto da sentirci tinta unita, che non si ricordi mai più il nostro colore, se non per i racconti dei genitori nei Natali futuri a luci intermittenti led dei nostri alberi sintetici. A ogni parabola della nostra infanzia candida e “poco Interessante” facciamo spallucce, abbozziamo mezzo sorriso, e riempiamo il bicchiere di Marsala. Quasi non ci appartenesse, quasi a dire che non fossimo noi.
Il tempo non cambia le persone. Le rende solo più sé stesse. Il tempo crea coerenza con la nostra infanzia.

Di fatto, veniamo al Mondo frignando, e il più di noi ad oggi ancora si piange addosso.


Brindisi

Ti brindo. Ancora.
Perché te ne sei andata ma come suol dirsi, resti a questo mondo.
Mentre io scivolo sui vetri
Delle parole non dette
Delle maschere indossate
Con orgoglio
Di chi ha la presunzione del controllo
E l’ambizione d’esser
uomo.

La verità?
Pensavo di averti mia
Vinta, per sempre.

Sono stanco
e penso:
me ne andrò.
Adesso.

Ti scriverei qui, ancora
Sapendo di non essere letto
Per il gusto di poter Amare
Senza il rendere conto.
Ma a te questo posto non piace
Io, non ti piaccio.

Penso:
me ne andrò.
Adesso.


Innamor-andato

Ho capito a vent’anni che non si può chiedere aiuto restando in silenzio.
Ho perso il treno, anche se mi si era fermato davanti, e a porte spalancate il controllore urlava di salire. Pensavo di aver viaggiato abbastanza, di aver dato a quella ferrovia abbastanza chilometri del mio viaggio. Ma ora alla stazione, mi rendo conto della morte del restare ad aspettare, e la mia mente è troppo appannata per comandare alle mie gambe di camminare. Sono stanco, e non vorrei. Non ho ancora l’età per riposarmi, eppure… Dove sarà ora quel treno? Avrà sconfitto l’orizzonte? Dimmi, dove si incontrano il cielo e la terra? Che c’è dopo? Tu lo sai. Me lo racconterai?

Sai.
Ragazza che non ho.
Proprio adesso che sei così lontana da me come non mai, proprio in questo momento sento il bisogno di parlarti.
Sei una porta con doppia mandata, e anche la finestra dal balcone da cui di solito scavalcavo quando non avevo le chiavi, non mi sarà d’aiuto. Ho costruito una fortezza tutta intorno a te, e poi ti ho chiesto di alzare il ponte levatoio per chiudermi fuori.
Adesso che ho completato la mia opera di esclusione, guardo al risultato.
Ho sbagliato tutto.
Ragazza che non ho, ti ho sempre parlato troppo poco rispetto a quanto meritavi, e a quello che avrei voluto. Sono fatto così, sono bravo a costruire fortificazioni perché il primo a circondarsi di mattoni sono io.
Ragazza che non ho, posso solo chiederti scusa in un posto in cui so che non mi leggerei. Perché il mio Amore possa esistere senza gravarti. Tutto il male, l’ho creato io. Perdonami e se mi incontrerai di nuovo leggi i miei occhi, e senza pensieri capirai che saranno lì solo per specchiarti. Tu e solo tu li conosci, e loro solo te conoscono. Su cos’altro dovrebbero posarsi? Si perderebbero nel vuoto, e cercando di capire dove questo finisce, cadrei in avanti.
Io dovevo scriverti un’altra volta, perché si possa urlare che a questo Mondo qualcuno ama ancora, e c’è speranza.
Ho rovistato nei miei pensieri, li ho ispezionati, ho elaborato e metabolizzato tutta la bile, avevo deciso di parlarti ma ho aspettato. Ed era già troppo tardi. Troppo. Per entrambi. Quella sera non ci saresti stata, e avrei visto la candela sul tavolo spegnersi per conto suo.
Perdona questa testa che pensa troppo, e prima ancora dovrò farlo io.

E’ sempre un brutto periodo l’inverno, con l’ombra della solitudine che riempie le stanze della mia mente, come un gas che esploderà dirompendo in una vampata di luce. Un ultimo lampo, come a sbeffeggiare i miei tentativi di scacciare la tenebra.

Sembra tutto uno scherzo. La vita è cabaret allo stato puro.
Non riderò. Non riesco più a trovare divertente il black humor.